Ridurre “la tragica consistenza classica della Lupa a quella di una femmina in foia per un gagliardo giovanotto, che ella non cessa di turbare con i suoi sensi eccitati“; dare dell’Italia meridionale un ritratto che “non può certo giovare al prestigio del Mezzogiorno ed al grado di civiltà del nostro Paese“; dipingere i carabinieri come “unicamente preoccupati di tutelare gli sporchi interessi del padrone“. Sono soltanto alcuni dei rilievi – meglio: delle accuse – che la censura del 1952 muoveva, già in sede di sceneggiatura, a LA LUPA, il film di ALBERTO LATTUADA che la Cineteca Nazionale - in collaborazione conLucana Film Commission - porta domani, lunedì 7 settembre, alla 72. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, nella sezione Venezia Classici. Ma non è “un classico come gli altri”, la Lupa: a sceglierlo, infatti, è stato il Leone d’oro Bertrand Tavernier, che ha voluto inserirlo – unito titolo italiano – nella carta bianca dei suoi “film della vita”. Segno tangibile di come questo film, all’epoca trascurato – se non peggio – dalla stampa italiana (troppo poco neorealista per la critica di sinistra, troppo sensuale per quella di destra), abbia invece lasciato il segno con i suoi accesi toni mélo, fino a prendersi oggi una autentica rivincita.
Scritto dallo stesso Lattuada insieme a un gruppo di sceneggiatori d’eccezione (da Alberto Moravia a Luigi Malerba ad Antonio Pietrangeli), La Lupa ambienta l’omonima novella di Verga, pubblicata nel 1880, in un paese degli anni ’50 cui presta l’aspetto aspro e suggestivo un’allora inedita Matera: qui una donna non più giovanissima ma ancora piacente, chiamata per la sua condotta spregiudicata “la Lupa”, ottiene con le armi della seduzione che la figlia Maricchia sia scelta per impersonare Sant’Agata nell’annuale processione. L’ingresso nelle loro vite di un giovane soldato, prima amante dell’una e poi marito (adultero) dell’altra, scatenerà passioni, gelosie e vendette: fino ad un finale letteralmente fiammeggiante che esalta le doti anche spettacolari di quello che, a ragione, fu definito “il più americano dei registi italiani”. Ma anche uno dei più attenti ai ritratti femminili, come dimostrano questi personaggi di madre e figlia interpretati da due attrici provenienti da latitudini lontane (l’algerina Kerima e la svedese May Britt) che il cinema italiano volle unire anche in un altro film di culto di quegli anni, La nave delle donne maledette di Raffaello Matarazzo.