La grande bellezza intervista a Carlo Verdone

INTERVISTA A CARLO VERDONE

 

“Chi è il Romano che lei interpreta in scena?”

 

“Forse è il personaggio più malinconico e il più umano del film, quello che ha più dignità di tutti. E’ uno scrittore frustrato, caparbio sognatore e inguaribilmente romantico, grande amico del protagonista Jep Gambardella, a sua volta sinceramente affezionato a lui. Vinto dalle continue delusioni che riceve nel lavoro, nella vita e negli affetti a un certo punto Romano troverà il coraggio di mollare tutto, scegliendo di ritornare al suo paese d’origine senza partecipare più al gioco al massacro delle feste romane, trasformate in una sorta di tribunale dove ci si accusa l’un l’altro e prendendo le distanze da quella ferocia continua e gratuita da cui è circondato. La sua voglia di correttezza e la sua “pulizia” rappresentano forse una sorta di antidoto al cinismo e all’indifferenza dilagante”.

 

 

 

“Che cosa l’ha convinta ad accettare la proposta di Paolo Sorrentino di recitare per lui in un ruolo da non protagonista?”

“Non ho mai fatto mistero del fatto che Paolo è uno dei registi che stimo di più in assoluto per le sue peculiarità molto marcate, ha uno stile assolutamente personale che mi affascina molto. Ho accettato volentieri di recitare per lui per il forte desiderio di far parte del cast di un film di grande qualità, di questo suo progetto importante e ambizioso in cui affronta e rappresenta alla sua maniera Roma. Oggi Roma è una città grande ma non è una grande città, porta con sé troppe magagne: la bellezza c’è sempre, per carità, ma la realtà di ogni giorno è disastrosa, vedi una Roma assurda, muri imbrattati con uno spray dietro l’altro, i pullman di turisti che la stritolano… Sorrentino l’ha molto amata, le ha voluto molto bene. Poteva inquadrarla e resuscitarla nella sua bellezza solo in quel suo speciale modo metafisico facendotela amare ancora di più. Io amo profondamente Roma, la scenografia unica di quella che forse è la più bella città del mondo, in questo senso mi è piaciuta molto l’idea di Paolo di mostrare lo sbalestramento della realtà odierna rappresentandola come una sorta di cimitero monumentale in un Paese alla deriva dove vagano anime erranti senza meta e aleggiano noia, cinismo e malinconia dietro la voglia euforica e folle di divertirsi a ogni costo fino all’ultima festa perché il domani si presenta minaccioso: l’esatto opposto de “La dolce vita” di Fellini, insomma”.

 

 

“Quali similitudini crede di riscontare nei due film?”

 

“Ne “La dolce vita” veniva descritta con acume ed ironia l’euforia di un Paese in pieno boom economico con la ricostruzione dalle macerie del dopoguerra che stava dando i suoi frutti brillanti alimentando un diffuso ottimismo. Oggi il futuro è considerato una minaccia perché mancano i valori, le ideologie sono in crisi, gli intellettuali girano a vuoto senza più autorevolezza. Ne “La grande bellezza” invece il grottesco di Sorrentino è di altissimo livello, iperreale, ma porta con sé un forte dolore. Il film mi è piaciuto molto perché rispecchia profondamente un certo umore del nostro tempo che non è solo italiano ma di tutto il mondo. Da noi lo si avverte sentendo alle spalle una grande bellezza come quella di Roma, quella del barocco, di monumenti eretti come se fossero grandi preghiere, mentre il presente rivela un suo lato dolente dove si muove un’umanità sbandata: il modo in cui Sorrentino ha saputo coniugare i due livelli è molto affascinante.

 

 

“Secondo lei “La grande bellezza” è un film sentimentale?”

“C’è la ricerca ostinata del sentimento in certe persone incancrenite dal cinismo, che cercano disperatamente l’amore e l’affetto ma sono vittime di un tormento interiore che non consente di essere liberi di esprimerlo. Jep Gambardella prova una profonda simpatia, si incuriosisce e si affeziona ad una demotivata spogliarellista in declino di un infimo locale di via Veneto, si ripropone  di diventare il suo Virgilio per farle conoscere la vera bellezza della sua città che lei non ha mai conosciuto. E’ gratificato nel constatare che lei prova curiosità e piacere grazie alle nuove scoperte, coltiva e riscopre il piacere di interagire in maniera nuova e insolita col prossimo. C’è in lui una ricerca del lato semplice e vero delle persone e allo stesso modo il protagonista intravede sicuramente delle reali qualità umane in Romano, il mio personaggio, altrimenti non avrebbe avuto nessuna voglia di frequentarlo”.

 

 

“Può essere definito un film religioso?”

 

“Si, assolutamente, le musiche sacre che animano la colonna sonora rappresentano quasi una grande preghiera collettiva di un’umanità in difficoltà. Tutto il film può essere forse letto anche come una grande preghiera laica dove la nostalgia per un grande passato la fa da padrona e da questo punto di vista la parte più interessante è quella finale, quando lentamente si va verso un lato mistico, con la cinepresa che si muove alla ricerca del bello che sembrava perduto nel tempo attraverso una Roma ferma, senza automobili, metafisica”.

 

 

 

“Che tipo di rapporto si è creato sul set tra lei e Sorrentino?”

“Paolo è sempre molto attento alla composizione dell’inquadratura, ci sono certe scene in cui l’attore diventa una parte della sua scenografia geometrica: è molto metafisico, mi ricorda De Chirico, ma è anche a suo modo “psichedelico”. Ha nei confronti dei suoi attori un approccio, un’impostazione di fondo da grande teatro, li considera interpreti da palcoscenico e li valuta da grande regista teatrale, d’avanguardia però, non classico ma avendo a disposizione uno sfondo e una scenografia particolare tutto diventa grande cinema. Tra noi è nato un rapporto curioso, quando lui preparava, ad esempio, una scena e io mi aspettavo che venisse realizzata con modi, tempi e umori particolari poi puntualmente arrivava e mi chiedeva di fare il contrario. Venivo portato sempre a cambiare qualcosa, aggiungendo magari un sorriso ironico, un lato di mestizia, una pausa dove non me l’aspettavo: ogni giorno mentre ero sul set non sapevo mai se avevo “azzeccato” o meno la mia interpretazione e se avevo individuato il punto di vista giusto. Mi sono sentito spesso spiazzato ma poi, vedendo il film finito, ho capito che quello era soltanto un modo particolare di Paolo di interpretare in maniera diversa ma molto efficace la pagina scritta. Ho avuto la fortuna di vedere in azione, da vicino, un regista speciale, molto talentuoso ed efficace. Sono rimasto ad esempio a bocca aperta nell’assistere all’illuminazione di un grande spazio con poche luci, c’erano momenti in cui giravamo una scena con cinque macchine da presa contemporaneamente, il che è molto inusuale per il nostro cinema: coi tempi che corrono, sarà davvero difficile fare un film di questo tipo in futuro, auguriamogli tutto il bene possibile. Il cinema italiano aveva bisogno di una svolta simile, oggi si girano soprattutto commedie che ripetono i cliché di sempre, i tempi che viviamo non aiutano a essere particolarmente comici e solo chi punta sulla farsa esplicita riesce in qualche modo a restare a galla: è difficile trovare il tema giusto da portare in scena, siamo tutti un po’ “sbandati” come nel film di Paolo”.

 

 

“Che rapporto si è creato invece con Toni Servillo?”

 

“Tra me e Toni esiste da sempre una forte stima reciproca, lo stimo immensamente da tutti i punti di vista, in teatro e al cinema è sempre autorevole. Il primo giorno di lavoro eravamo molto felici di poterci misurare in scena, eravamo molto emozionati l’uno per la presenza in scena dall’altro. Per me è stato un privilegio poter scambiare delle battute in scena con lui, è stato poetico e bello vedere le nostre storie personali e professionali, così diverse, che interagivano nel miglior modo possibile. Ci sono attori capaci di fare una gran figura in scena, anche quando stanno zitti ed è quello il segno della loro importanza e della loro maestria: Toni Servillo tu lo segui anche nei silenzi e impari comunque, anche se lui sta fermo e non dice niente”.

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