30 maggio “Tutti Pazzi per Rose” (“Populaire”)” di Régis Roinsard con Romain Duris, Déborah François, Bérénice Béjo
TUTTI PAZZI PER ROSE è il suo primo lungometraggio. Quale percorso l’ha portata alla regia?
Ho sempre avuto voglia di raccontare storie attraverso le immagini e quando ero al liceo avevo iniziato a fotografare le persone che i miei compagni consideravano strane. A onor del vero, credo di aver fatto anch’io parte di quella categoria, visto che passavo tutto il mio tempo a registrare i film che venivano trasmessi in televisione per poterli esaminare in dettaglio in un secondo momento. Poi ho studiato cinema e in seguito mi sono cimentato in tutti i mestieri cinematografici: macchinista, scenografo, fonico, ecc. Volevo confrontarmi con la realtà tecnica della costruzione di un film. Nel giro di breve tempo, ho girato il mio primo lungometraggio, a cui ne sono seguiti altri tre e mentre lavoravo al terzo ho iniziato a realizzare spot pubblicitari, videoclip e documentari musicali per artisti quali Jean-Louis Murat, Jane Birkin e Luke. Ho fatto completamente miei tutti questi lavori su commissione, ma nel frattempo ho continuato a coltivare l’idea di passare al lungometraggio. Penso che il motivo per cui ho impiegato tanto per riuscirci è stato che volevo a tutti i costi innamorarmi di una storia.
Come le è venuta l’idea di rievocare le gare di dattilografia in un’opera di finzione?
Nel 2004, mi è capitato di vedere un documentario sulla storia della macchina per scrivere che comprendeva una piccolissima sequenza sui campionati di velocità dattilografica: quei brevi trenta secondi mi hanno talmente affascinato che ho subito percepito le potenzialità cinematografiche e drammaturgiche di quel tema e quindi ho cominciato subito a delineare la trama. L’universo della dattilografia mi sembrava folle: trovavo incredibile che fosse potuto diventare uno sport ed ero incantato dal rapporto uomo/macchina. All’inizio avevo soltanto la giovane campionessa e il personaggio maschile non esisteva. Ma avevo già immaginato che lei venisse da un villaggio e le avevo dato il nome di una delle mie nonne. C’è da dire che, esattamente come Rose, anch’io vengo da una piccola città della Normandia e che Parigi, per me, rappresentava la metropoli inaccessibile.
A partire da questo spunto, come si è documentato?
Ho cominciato a indagare sulla «disciplina sportiva» di velocità dattilografica e sulle scuole che insegnavano stenografia e dattilografia. Era il 2004 ed è stato un lavoro complicato, perché in quegli anni tutte le scuole stavano scomparendo e non era stato conservato quasi nessun documento d’archivio. Su Internet ho trovato qualche breve video delle gare di velocità dattilografica. Tra i documenti più interessanti, ho scoperto una fotografia di un campionato americano che si svolgeva in una sala simile a un velodromo davanti a migliaia di spettatori. Ho anche scovato le pubblicità della Japy, l’azienda francese che fabbricava macchine per scrivere e organizzava gare di velocità dattilografica, che elencano i campionati regionali. Inoltre, ho incontrato ex campioni e campionesse di velocità che mi hanno raccontato la pressione mentale che subivano e le strategie di destabilizzazione degli avversari attraverso lo sguardo, confortandomi nell’idea che fosse un vero e proprio sport. Ma in quella fase, non sapevo assolutamente se il film avrebbe preso la strada del dramma o della commedia.
E a quel punto si è lanciato nella scrittura?
Sì, con l’idea di adottare un registro che fosse squisitamente mio. Ho iniziato scrivendo un trattamento di una trentina di pagine, in cui ho creato i personaggi che gravitano attorno a Rose, e con Daniel Presley, un amico produttore musicale grande fan delle commedie americane degli anni ’50, abbiamo inventato i personaggi di Bob e Marie. Di conseguenza, abbiamo deciso di scrivere la sceneggiatura a quattro mani. Daniel è estremamente esigente e ha un umorismo alla Woody Allen: avevamo pensato di scrivere i dialoghi in inglese, di cui io avrei in seguito proposto un adattamento in francese, in modo da realizzare una alchimia perfetta tra commedia americana e «French touch»! Ho anche apprezzato molto il fatto che Daniel mi facesse osservazioni pertinenti sulla musicalità e il ritmo dei dialoghi. Alla fine della prima stesura, eravamo soddisfatti solo al 60%, nello specifico perché avevamo l’impressione che l’evoluzione psicologica di Rose fosse troppo semplicistica. Casualmente avevo letto alcune sceneggiature del ventiseienne Romain Compingt, un fan di Britney Spears e Marilyn Monroe, e per qualche strano motivo percepivo in lui una sensibilità particolare che avrebbe potuto dare corpo alla psicologia di Rose. Mi sono quindi rivolto a Romain e, tre settimane dopo, ci ha restituito una versione della sceneggiatura che ci ha soddisfatto all’85%! Con lui, la storia d’amore è diventata più audace. Ci siamo rimessi al lavoro tutti e tre insieme, chiedendoci se potesse funzionare una collaborazione tra un giovane fan di star decadute, un musicista americano e me, cosa tutt’altro che scontata!
In quale fase Alain Attal è entrato a far parte del progetto?
È stato il primo a leggerlo: gli abbiamo dato la sceneggiatura un venerdì e il martedì seguente ci ha detto che voleva fare il film! Ci siamo incontrati e ci siamo subito resi conto che la mia visione del film corrispondeva alla sua. La cosa straordinaria è che Alain si pone lui stesso come un «allenatore»: mette i registi in condizione di dare il meglio di sé. Alain è il mio Louis Echard! È anche una persona animata da un’autentica follia e dalle sue ossessioni artistiche: mi ha messo costantemente con le spalle al muro, incoraggiandomi ad avere dei dubbi e questa è una dialettica che amo molto. Inoltre, è un grandissimo cinefilo e condividiamo gusti e riferimenti visivi, quindi ci siamo a lungo confrontati su cineasti come Nicholas Ray o Godard, che lui conosce come le sue tasche, o sui film a colori di Joseph Losey.
Il progetto è partito anche dal desiderio di rievocare la fine degli anni ’50?
C’era anche questo, anche se non volevo in alcun modo fare un film che rendesse omaggio a quell’epoca. In realtà, sono affascinato dagli anni ’50 sul piano estetico, musicale, letterario e cinematografico. Prova ne è che amo molto film recenti ambientati in quel periodo, come PLEASANTVILLE o PEGGY SUE SI È SPOSATA, e volevo che la messa in scena e il montaggio si inscrivessero nella modernità.
Cosa le piace tanto degli anni ’50?
Sono caratterizzati da un rapporto spazio-temporale molto particolare che segna sia l’esordio della società dei consumi per gli adolescenti, con la nascita del rock’n roll e l’evoluzione dei codici di abbigliamento, sia i primi passi dell’intrattenimento e delle sponsorizzazioni negli eventi sportivi. È anche il periodo dei “Trente Glorieuses”, il trentennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale durante il quale la disoccupazione quasi non esisteva e l’avvenire sembrava roseo, malgrado la situazione mondiale fosse più cupa di quanto non la si volesse vedere. Gli anni ’50 sono stati un decennio strano in cui la gente, che usciva dal conflitto mondiale, preferiva non affrontare gli eventi drammatici che si verificavano nel mondo, cosa che è stata costretta a fare solo a partire dal decennio seguente.
È anche un decennio che ha segnato una svolta sul piano sociologico e culturale.
Sì, perché gli anni 1958-59 precedono immediatamente l’inizio dell’emancipazione femminile. Due o tre anni dopo, le gonne si sono accorciate e le donne si sono posizionate in modo diverso nel mondo del lavoro. Mi piace molto quest’epoca perché costituisce un momento cardine che annuncia i successivi anni ’60. E questo vale anche dal punto di vista della moda: per esempio, i modelli simbolo di Ray-Ban li portiamo ancora oggi. E poi l’ossessione per la velocità è nata in quel periodo: i record di velocità in automobile si moltiplicavano e si sono costruiti i primi aerei supersonici. La ricerca della velocità, che caratterizza tanto gli anni ’50, mi colpisce molto, considerando che siamo tutt’ora in questa fase di ricerca sfrenata ai giorni nostri.
Qual era il suo obiettivo per quanto riguarda lo stile visivo del film?
Abbiamo lavorato alla direzione artistica in modo periferico: volevamo ricreare gli anni ’50 mescolando l’aspetto documentario, il cinema dell’epoca che amo, in particolare i film americani, e l’immagine fantastica che ha la gente di quel periodo. Tutto quello che riguarda i protagonisti trae ispirazione dal cinema e dalla fantasia, attingendo ai codici di cineasti quali Billy Wilder e Douglas Sirk, e più ci si allontana dalla cerchia dei personaggi principali, più ci si avvicina a una visione documentaria. Per esempio, i ruoli secondari e le comparse sono ancorati in una visione realistica poiché abbiamo voluto che avessero profili e fisionomie tipici dell’epoca.
E i colori?
Abbiamo esaminato molte pubblicità americane e francesi degli anni ’50 e visionato quasi tutti i film a colori girati in quell’epoca in Francia. Non è stato facile, perché in quel periodo in Francia si girava ancora prevalentemente in bianco e nero e i rari film a colori erano essi stessi film d’epoca realizzati in studio! IL PALLONCINO ROSSO o ZAZIE NEL METRO’ sono stati per noi fonte d’ispirazione, ma abbiamo un po’ barato, perché abbiamo visto anche i film a colori della Nouvelle Vague, come LA DONNA È DONNA di Godard.
Ha avuto altri riferimenti oltre a quelli cinematografici?
Come riferimento abbiamo preso anche l’insieme delle opere di un illustratore, Alex Steinweiss, che in quegli anni ha ideato un discreto numero di copertine di dischi. Nel suo lavoro c’è tutta la gamma cromatica, sia nei vestiti, sia negli ambienti, che abbiamo utilizzato per la totalità del film. Ho anche fornito al reparto scenografie una serie di riferimenti di designer e stilisti dell’epoca: volevo che il film esprimesse la mia visione estetica degli anni ’50. L’aspetto più difficile era far credere agli spettatori che gli esterni siano quelli degli anni ’50. Per questo motivo, abbiamo consultato immagini d’archivio a colori per aderire alle tonalità insature di quel periodo. E ci siamo resi conto che, per esempio, le automobili erano sempre monocromatiche perché in quell’epoca le vernici delle carrozzerie non erano ancora industriali o erano appannaggio di una clientela agiata. Abbiamo quindi optato per un’insaturazione dei colori, mantenendo le dominanti di rosso, verde e blu perché volevo che l’occhio fosse incessantemente sollecitato.
A tratti il film ci fa pensare a Jacques Demy. È stato anche lui un regista di riferimento sul piano visivo per lei?
Assolutamente! Adoro le storie che in apparenza sono rosa, ma che nella sostanza non lo sono più di tanto. È probabile che sia questo aspetto ad avvicinare TUTTI PAZZI PER ROSE a una fiaba. E nel cinema di Demy, bisogna saper cogliere l’ironia tra le righe, anche quando a volte i film hanno un happy end. Demy utilizza la magia e l’illusione per far scivolare un messaggio più profondo di quanto non sembri. Tra i suoi film, quello che amo di più è LA FAVOLOSA STORIA DI PELLE D’ASINO, malgrado anche LES PARAPLUIES DE CHERBOURG sia stato per me una fonte d’ispirazione. Detto questo, per me TUTTI PAZZI PER ROSE è anche un film di cappa e spada! La sequenza finale si ispira a SCARAMOUCHE di George Sydney: quando Louis sbarca a New York, siamo quasi in una situazione da duello cavalleresco o da combattimento tra gladiatori.
Come mai nel film c’è una strizzata d’occhio a LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE?
All’inizio non era deliberata: i colori dominanti rosso e blu mi vengono da LA VENERE IN VISONE di Daniel Mann, dove una coppia adultera si reca in un motel. Poi abbiamo guardato LA DONNA È DONNA che comprende una scena anch’essa giocata nei rossi e blu. Quindi mi sono ispirato alla visione fantastica di Hitchcock che è stata assimilata da altri registi. Io stesso ne sono impregnato visto che, quando ho visto Déborah François uscire dal bagno, ho avuto l’impressione di veder apparire Kim Novak. Per la musica, abbiamo fatto ascoltare la partitura di LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE al mio compositore che non è più riuscito ad allontanarsene.
Come ha sviluppato i personaggi?
All’inizio, quando ho scritto il ruolo di Rose, l’ho fatto pensando a tutte le donne che negli anni ’50 volevano emanciparsi e in particolare a mia madre: faceva l’agricoltrice con i suoi genitori e a un certo punto li ha lasciati per andare a lavorare in una città più grande. Lì ha incontrato mio padre, che dirigeva una compagnia d’assicurazione e aveva nei confronti delle persone un modo di fare più simile a quello di un medico di campagna che a quello di un assicuratore di oggi. Svolgeva un ruolo di catalizzatore con i suoi clienti e anche, per certi versi, con mia madre che ha aiutato a smarcarsi e a liberarsi. Quando sono nato io, mia madre ha fatto la stessa cosa con mio padre: nel momento in cui è andato in pensione, si è comportata con lui come una «allenatrice». Mi piace molto questo rapporto di mutua assistenza tra gli esseri umani. In TUTTI PAZZI PER ROSE, Rose è aiutata da Louis che ha la velleità di farle da allenatore fino a quando, progressivamente, i rapporti si invertono. Ho pensato di trovare un equilibrio in questo genere di legame tra individui che, a turno, si stimolano gli uni con gli altri. Del resto, continuavo a ripetere alla mia troupe: «Siete al tempo stesso allenatori e atleti». Ho sempre avuto una passione per lo sport e ho sempre amato la figura dell’allenatore.
Ci parli della scelta degli attori…
Volevo riunire un cast dove ogni attore avrebbe apportato la propria unicità, come un direttore d’orchestra che sceglie dei musicisti che si rispondono e si accordano reciprocamente. Un po’ alla maniera di Tim Burton che mescola attori celebri ad attori di profilo più basso e ad attori teatrali. Nella selezione del cast non ho fatto alcuna concessione perché era essenziale che tutti i personaggi fossero pienamente incarnati. Per questo motivo gli attori che ho scelto provengono da orizzonti diversi. Romain Duris si è imposto subito poiché sono impressionato dal suo senso del ritmo e della commedia. Si è impegnato moltissimo per incarnare il personaggio: ha chiesto che venissero riscritte alcune parti della sceneggiatura per approfondire il ruolo e ha svolto lui stesso una ricerca sul contesto del film, arrivando a incontrare un allenatore di calcio per farsi spiegare in cosa consiste il suo mestiere. Romain è sempre alla ricerca di qualcosa e a un certo momento ne sapeva più lui di noi del personaggio. Quello che mi piace in lui è il fatto che, come Louis, mantiene su di sé un alone di mistero. Non parla molto di se stesso e questo tipo di atteggiamento è stimolante per me e affascinante per i suoi partner.
E per Rose Pamphyle?
All’inizio, con Alain Attal, ci eravamo detti che avremmo preso un’attrice sconosciuta al grande pubblico, ma poi, al momento di selezionare il cast, abbiamo deciso di non porci dei limiti. Abbiamo provinato circa 150 attrici professioniste e principianti, e Déborah si è imposta con evidenza a tutti noi. Mescola un’autentica fragilità e una distrazione commovente che può evolvere verso un certo non so che di affascinante: possiede esattamente quello che cercavamo per Rose, una ragazza che viene dalla campagna e diventa una star. E quando Déborah ha fatto i primi provini, sono rimasto folgorato nel vedere che arrossiva veramente! Era Rose Pamphyle! Dovevamo poter incollare la foto di Rose Pamphyle accanto a quelle delle star dell’epoca senza che questo creasse uno shock, in modo tale che diventasse una nuova musa ispiratrice. Volevo «tremare» vedendo Rose Pamphyle. Quello che mi piace in Déborah, è il suo lato molto indipendente e il suo carattere ben temprato. Peraltro, ci siamo completamente trovati nelle sfide che POPULAIRE ha posto ad entrambi: nel percorso di ciascuno dei due, è la prima volta che abbiamo la possibilità di lavorare su un grosso film su cui abbiamo puntato una posta molto alta.
Come l’ha diretta?
A volte con lei sono stato una specie di «Louis Echard», soprattutto negli allenamenti che le ho imposto perché acquisisse la velocità dattilografica. Poi Romain, che nel film incarna il suo «allenatore», ha naturalmente preso il mio posto: è persino andato a Liegi per vederla allenarsi a battere la tastiera con dieci dita. Per prepararsi a interpretare il ruolo, ho chiesto a Déborah di guardare le commedie di Billy Wilder, interpretate da Audrey Hepburn e Shirley MacLaine, ma volevo che andasse anche verso Marilyn Monroe. Le ho fornito diverse iconografie dell’epoca per farle comprendere le posture delle donne negli anni ’50, dal modo di baciare a quello di stare sedute su un divano, di alzarsi, ecc. Déborah non è mai nel mimetismo: assimila tutto il materiale che le viene fornito e lo rielabora, staccandosi completamente dal modello originale. Solo la sua pettinatura, con la coda di cavallo, è un riferimento diretto ad Audrey Hepburn: motivo per cui, abbiamo attaccato un poster della star su una parete della sua camera.
Come le è venuta l’idea di affidare il ruolo di Marie a Bérénice Béjo?
In realtà l’ho scoperta grazie a THE ARTIST, dove mi ha particolarmente toccato nella scena in cui si impossessa del cappotto di Jean Dujardin nel suo camerino: ho capito tutta la sensibilità di cui doveva dar prova per interpretarla in modo efficace. Ero anche alla ricerca di una bellezza indiscutibile, quella che tutti abbiamo ammirato al liceo nelle ragazze più carine, e di un’attrice in grado di rendere credibile una storia d’amore con Romain, tra il personaggio interpretato da lui e la sua fidanzata ideale. Anche se Louis è completamente perso per Rose e paralizzato da lei, e malgrado Marie sia sposata con Bob, Louis e Marie sono indissolubilmente legati uno all’altra. Sapevo che Bérénice sarebbe stata in grado di interpretare una madre casalinga soddisfatta del suo ruolo, che tuttavia non si lascia ingannare dalla posizione delle donne nella società dell’epoca. Quando abbiamo fatto una prima lettura con Bérénice e Romain, lui era a bocca aperta: percepiva in lei sia il lato materno e rassicurante sia il lato anticonformista e sexy. Come testimonia il suo taglio di capelli di media lunghezza, è una donna moderna: è già proiettata negli anni ’60.
Perché ha reso americano l’amico di Louis Echard?
Negli anni ’50, i francesi fantasticavano sugli Stati Uniti. Attraverso un personaggio americano, volevo che si potesse dare corpo al passaggio dalla società dei consumi alla società dell’intrattenimento che in Francia iniziò a verificarsi in quel periodo. Inoltre, grazie al personaggio di Bob, e a Shaun Benson che lo interpreta, ho potuto sottolineare l’aspetto di commedia musicale del film, visto che mi fa pensare a Gene Kelly.
Come ha scelto le musiche preesistenti?
Innanzitutto non mi sono fissato in modo inderogabile sull’anno in cui si svolge la storia: ho preferito lasciarmi un margine di circa tre anni prima e tre anni dopo il 1958. Per quanto riguarda la musica americana, adoro la musica lounge e il jazz varietà di musicisti come Les Baxter o Martin Denny, e sono anche un appassionato di tutti quei compositori degli anni ’50 che hanno scritto per Sinatra e altri crooner. Volevo utilizzare quel genere di musica, ma anche le canzoni francesi dell’epoca. Nella Francia del dopoguerra dominavano cantanti come Montand, Ferré, Brassens e Piaf e quindi non trovavo l’equivalente del jazz varietà americano. Poi ho scoperto artisti misconosciuti come Jack Ary, che dirigeva un’orchestra di cha-cha-cha e mambo. Ha pubblicato una ventina di 45 giri ed è così che ho scovato «il cha-cha-cha della segretaria».
E le musiche originali?
Mi sono reso conto che ne avevo bisogno perché le musiche preesistenti non mi bastavano. Mi sono rivolto a Rob, che lavora con la band Phoenix e che è molto forte sul fronte melodico, e a Emmanuel d’Orlando, e insieme hanno composto dei brani che apportano al film un grande impatto emotivo. Mi ero sempre detto che era necessario andare verso il melodramma! Per la registrazione, mi sono ispirato ai metodi degli anni ’50-’60, in particolare per il posizionamento dei microfoni. Abbiamo inciso in Francia con musicisti che abitualmente suonano opere liriche e che sono stati entusiasti di assaporare la musica pop guardando le immagini del film. Tutto sommato, la colonna sonora si avvicina a una commedia musicale e sono felice di questo poiché, se ci sono due cineasti che adoro per il loro senso del ritmo e delle tonalità, sono Stanley Donen e Bob Fosse.
Sinossi
Primavera 1958. Rose Pamphyle ha 21 anni e vive con suo padre, un burbero vedovo titolare dell’emporio di un piccolo villaggio in Normandia. Rose è promessa in sposa al figlio del proprietario dell’autofficina e l’attende un destino di casalinga docile e devota. Ma Rose non vuole saperne di una vita del genere. Così decide di partire per Lisieux, dove il trentaseienne Louis Echard, carismatico titolare di un’agenzia di assicurazioni, sta cercando una segretaria. Il colloquio per l’assunzione è un fiasco totale. Ma Rose ha un dono: batte i tasti della macchina per scrivere a una velocità vertiginosa e così riesce suo malgrado a risvegliare l’ambizioso sportivo che sonnecchia in Louis… Se vuole ottenere il posto, Rose dovrà partecipare a delle gare di velocità dattilografica. Ignorando i sacrifici che la giovane dovrà compiere per raggiungere l’obiettivo, Louis si improvvisa allenatore e decreta che farà di Rose la dattilografa più veloce di Francia, e perfino del mondo! E l’amore per la competizione sportiva non va necessariamente d’accordo con l’amore puro e semplice…