INTERVISTA AL REGISTA
Cosa l’ha colpita del romanzo di Nicolai Lilin?
Non conoscevo il romanzo, che mi è stato proposto dai produttori di Cattleya. Leggendolo ho scoperto una storia ambientata in una sorta di Far “East”, un ambiente di frontiera, con regole proprie, che in qualche modo mi attirava. La filosofia, l’etica di questo gruppo criminale i cui membri si definiscono “criminali onesti”, e sono profondamente legati alla natura e alle sue regole a volte anche crudeli, mi ha ricordato un film di Kurosawa di alcuni anni fa, Dersu Uzala, che aveva al centro un cacciatore siberiano che viveva lontano dal mondo… Mi piaceva l’idea di raccontare l’eroica e disperata resistenza, epica perché destinata a fallire, di un gruppo di persone, di un’etnia, davanti ad un mondo nuovo che sta arrivando, al progresso, alla globalizzazione. Ma è anche, soprattutto, la storia di personaggi che si incontrano e scontrano nella vita. Il film non ha alcun intento sociologico, politico o documentario.
Considera il personaggio di John Malkovich, con la sua educazione alla vita e al crimine un cattivo maestro?
Vorrei che il pubblico notasse che, buoni o cattivi, l’importante è che i maestri ci siano. Per dare la possibilità ai loro “allievi” di confrontarsi, di decidere con la propria testa, di poter, magari, arrivare a dire al maestro che ha sbagliato, quindi di crescere. Bisogna prendersi la responsabilità di dire: “questo è bianco e questo è nero”, anche se non ne sei totalmente sicuro. Anche se poi sarai smentito. Come un regista ai suoi attori, così un genitore con un figlio. Allora dico, meglio un cattivo maestro che nessun maestro.
Le diverse epoche in cui si svolge la storia, sono sottolineate da stili diversi di ripresa e di messa in scena. Perchè?
Sostanzialmente la storia si svolge in tre momenti particolari: quello dell’infanzia dei protagonisti, prima della caduta del Muro di Berlino, poi intorno ai loro vent’anni, e poi ci sono gli episodi del 1997, sulle montagne del Caucaso. Momenti della vita dei personaggi profondamente diversi che ho voluto sottolineare nelle loro differenze anche in tecnica di ripresa. E’ una scelta narrativa.
La parte dell’infanzia sembra anche un omaggio alla grande tradizione del cinema e della letteratura russa…
Certamente. C’è chi ci ha visto Dickens e chi Tolstoj e Dostojevski. E’ vero che gli espisodi dell’infanzia dei protagonisti risentono maggiormente di suggestioni letterarie e cinematografiche anche perché quella fase corrisponde ad un “passato”, ad un momento di potere del clan criminale a cui appartengono i due ragazzi protagonisti e, quindi, è raccontato quasi come una favola, all’insegna del “quando eravamo ancora potenti e guerrieri”. Quando i ragazzini crescono, quella struttura si sta sfaldando, quel mondo va scomparendo e il ritmo, il colore, la fascinazione del racconto cambia.
Come è stato coinvolto John Malkovich?
Abbiamo avuto fortuna. Malkovich è stato il primo attore al quale, con i produttori, abbiamo pensato per questo ruolo. Avevo bisogno di una persona con un forte carisma, con l’autorità e l’autorevolezza che apparteneva anche al personaggio. Ma con, dentro, anche una sua pericolosità. Volevo qualcuno che, già nel suo essere di attore, lasciasse emergere il suo non allineamento con i valori e i comportamenti comuni. Per fortuna gli è piaciuta molto la sceneggiatura e quindi è riuscito a ricavare un periodo di tempo per poter girare il film. Sul set poi ho scoperto la persona. E quanti elementi di contatto avevamo, esperienze comuni: tutti e due abbiamo iniziato come chitarristi, con la musica, tutti e due da lì dal teatro (molto importante per entrambi) e poi dal teatro al cinema. Abbiamo più o meno la stessa età e quindi abbiamo potuto lavorare anche su questo “turning point” che sono i 60 anni, soprattutto per un uomo, per poter costruire questo nonno come l’ultimo dei mohicani, estremo difensore di quei valori che stanno crollando giorno per giorno.
Accanto a Malkovich anche esordienti, come i due ragazzi protagonisti…
Sì, a parte Peter Stormare ed Eleanor Tomlinson che arrivano dal cinema internazionale, Arnas e Vilius sono due esordienti. Li abbiamo cercati con tratti emotivi, oltre che fisici, ma soprattutto caratteriali, molto vicini ai personaggi che avrebbero dovuto interpretare.
Un film in costume, con quale sforzo produttivo?
Abbiamo girato in Lituania, nei dintorni di Vilnius. E con la scenografa Rita Rabassini abbiamo dovuto ricostruire tutto: lì non ci sono scritte in cirillico, quindi abbiamo dovuto rifare tutto, dalle automobili ai pacchetti di sigarette. Abbiamo ricostruito un angolo di Russia, tra il 1987 e il 1997, cercando costumi, oggetti, mobili d’epoca. E trasformare anche i luoghi. Niente di quello che si vede era così quando siamo arrivati. Ci abbiamo messo quasi due anni tra preparazione e realizzazione. Anche per questo, perché non è da tutti, ringrazio i produttori di Cattleya.
Colonna sonora come sempre molto curata. E un classico di David Bowie, accompagna una delle scene più simboliche del film, quella sulla giostra. Come avete lavorato sulla musica?
Le musiche originali sono di Mauro Pagani, mio vecchio amico, che mi sembra adatto perchè viene dal rock ma ha una cultura anche di musica etnica, folk, strumenti e voci legati alla tradizione. Inoltre stava lavorando proprio in quel momento con un’orchestra mongola…Non cercavo una musica da film d’azione e blockbuster, volevo una dimensione più intima, più vicina ai personaggi. Per quanto riguarda Absolute Beginners di David Bowie, è un pezzo che amo molto e parla di principianti assoluti. Come i personaggi del film, principianti nella vita e nel mondo globalizzato. Quella scena in un quartiere sovietico degli anni ’70, con i palazzi tutti uguali, nel bianco della neve, grigi, senza colori, al cui centro è collocata una piccola giostra colorata, come un’astronave arrivata da un mondo lontano, e da cui si diffonde una musica per loro “aliena”, è una di quelle che preferisco nel film. Nell’ex Unione Sovietica, le cose, le case, duravano a lungo, non si rompevano mai, ma non erano belle, perché l’estetica, forse anche ragionevolmente, non era considerata un valore principale. Ma, come dicevano le femministe negli anni 70: “abbiamo bisogno del pane ma anche delle rose”. E quella scena, quella canzone, è come il profumo delle rose per quei ragazzi. Rose che non avevano avuto mai.