3 gennaio “The Master” di Paul Thomas Anderson
con Philip Seymour Hoffman, Joaquin Phoenix, Amy Adams
LEONE D’ARGENTO PER LA MIGLIORE REGIA
Paul Thomas Anderson
COPPA VOLPI PER LA MIGLIORE INTERPRETAZIONE MASCHILE
Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman
PAUL THOMAS ANDERSON (Regista) Paul Thomas Anderson ha scritto e diretto Sidney (1996), Boogie Nights (1997), Magnolia (1999), Ubriaco d’amore (2002), Il Petroliere (2007) e The Master (2012).
SINOSSI The Master di Paul Thomas Anderson racconta la storia di un reduce della Marina, Freddie (Joaquin Phoenix), tornato a casa dopo la guerra pieno di inquietudine e di incertezze, e del suo incontro con la Causa e con il suo leader carismatico, Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman). Amy Adams interpreta il ruolo di Peggy, la moglie di Dodd.
NOTE DI PRODUZIONE
L’America uscita dalla fine della Seconda Guerra era un Paese inquieto. In un’epoca segnata da grandi ambizioni e da una crescita senza precedenti, ma anche da un profondo sradicamento e da ansie latenti, l’esplosiva combinazione di questi elementi contrastanti diede origine a quella cultura della ricerca di sé e della valorizzazione delle aspirazioni ancora presente nel XXI° secolo. I ragazzi che fecero ritorno a casa, riemersi dalle irrazionali tenebre della guerra, forgiarono un nuovo, scintillante mondo in cui trionfavano consumismo ed ottimismo. Ma per molti tutto questo non era sufficiente, presi com’erano dal desiderio di scoprire di più della vita, di afferrare qualcosa di più grande di loro, qualcosa che mettesse fine all’ansia, alla confusione e alla ferocia del mondo moderno. Il sesto film di Paul Thomas Anderson, The Master, racconta una vicenda profondamente umana che si colloca all’interno di quell’atmosfera densa di aspirazioni spirituali propria dell’inizio degli anni ‘50. Il film narra le alterne fortune di Freddie, interpretato da Joaquin Phoenix, un instabile ex ufficiale di Marina incapace di riabituarsi alla banalità della vita quotidiana, e dell’imprevedibile percorso che intraprende dopo essersi imbattuto in un nascente movimento noto come la Causa. Avvicinatosi alla Causa da outsider e da vagabondo, Freddie finirà col diventare l’erede designato del suo carismatico leader, Lancaster Dodd, interpretato da Philip Seymour Hoffman. Ma, per quanto la Causa si fondi sulla capacità dell’uomo di dominare le proprie emozioni, il cameratismo tra Freddie e Dodd comincia a trasformarsi lentamente, fino a diventare un appassionato e violento scontro tra due volontà. Primo lungometraggio, dopo alcuni decenni, ad essere girato utilizzando una pellicola 65mm, The Master è stato realizzato da un cast tecnico e artistico collaudato che ha dato vita a meravigliose immagini e al provocatorio ritratto di tre persone che aspirano al miglioramento. Paul Thomas Anderson, più volte candidato agli Oscar®, ha sempre spinto i suoi film al limite delle emozioni, dei legami familiari e della storia. Il suo primo film, Hard Eight (Sidney), racconta la storia di un testardo giocatore professionista di Las Vegas che decide di prendere sotto la sua ala protettrice un perdente perseguitato dalla sfortuna, andando incontro ad esiti imprevedibili. Il successivo Boogie Nights è incentrato su un gruppo di persone che lavorano nell’industria del cinema porno e che danno vita ad una sorta di ‘famiglia’ poco convenzionale; Magnolia è strutturato invece come una serie di racconti intrecciati tra loro su alcuni personaggi alle prese con crisi personali, magicamente uniti da notte speciale nella San Fernando Valley; e Ubriaco d’amore è un’incantevole commedia romantica su un solitario uomo d’affari e sul suo sconvolgente incontro con l’amore e con la paura. Il suo film più recente, Il Petroliere, ambientato nella California dell’inizio del secolo scorso, è l’epico ritratto di un cercatore che, per la sua brama di petrolio, trasforma se stesso e un’intera città. Con The Master Anderson dimostra di essere affascinato dalla nascita di un nuovo genere di famiglia americana, nato dallo sconvolgimento provocato dalla Seconda Guerra mondiale: quello dei gruppi spirituali alternativi e delle nuove religioni. Dall’ascetismo orientale a Dianetics, i primi anni ‘50 sono stati l’epoca in cui molti hanno cominciato a dar vita a comunità di base impegnate a realizzare grandiose visioni basate sulle riscoperte potenzialità dell’uomo. “Era un terreno fertile su cui impiantare una storia drammatica e coinvolgente” – dice Anderson a proposito della sua fascinazione per quell’epoca di sconvolgimenti culturali e di avventure spirituali. “Tornare all’origine delle cose ti permette di vedere quali fossero le buone intenzioni dalle quali erano nate; e quale sia stata la scintilla che ha innescato nella gente il desiderio di cambiare se stessa e il mondo circostante. Il periodo dopo la fine della Seconda Guerra mondiale è stato quello in cui le persone hanno cominciato a guardare avanti con grande ottimismo, proprio mentre elaboravano dolore, morte e perdite, ancora presenti e visibili nello specchietto retrovisore”. Prosegue: “Mio padre è uscito dalla Seconda Guerra mondiale come un uomo rimasto poi inquieto per tutta la vita. Si dice che ogni momento sia quello buono per la nascita di un movimento spirituale o di una religione, ma un momento particolarmente propizio è proprio quello successivo ad una guerra. Dopo tanta morte e tanta distruzione la gente si chiede ‘perché?’ e ‘dove vanno a finire i morti?’. Due domande molto importanti”. Da quel “perché?” ha avuto origine il personaggio Freddie, un uomo alla deriva, che gira in tondo e galleggia in un malsano e confortante oblio quando incontra per la prima volta Lancaster Dodd, anche lui uomo della Marina, che crede di aver scoperto alcune inconfutabili verità su come il genere umano possa riuscire a sconfiggere i propri istinti animali più abietti. Con Freddie al centro della storia, la narrazione diventa estremamente intima, tracciando il suo percorso contorto e contradditorio verso la Causa, un percorso instabile e appassionato, fatto di ribellioni e lealtà, speranze e distruttività, e denso di sogni e di fantasie che trapelano un po’ alla volta dal realismo delle immagini. La produttrice Joanne Sellar, che ha collaborato alla realizzazione di tutti i film di Paul Thomas Anderson a partire da Boogie Nights, ha assistito all’evoluzione creativa del progetto. “Paul era molto interessato alla questione di cosa può farti la guerra, e di come nel 1950 ci fossero tutti quegli uomini che tornavano a casa e che avrebbero dovuto ricominciare a trovare una collocazione nel mondo. Era un’epoca piena di anime perse in cerca di risposte, e il modo in cui si sono formati tutti quei nuovi gruppi spirituali, Dianetics tra gli altri, affascinava molto Paul. Ovviamente Paul non aveva alcuna intenzione di realizzare un film che non fosse di finzione, non sarebbe nel suo stile. L’ideazione della Causa può aver tratto ispirazione dalle sue ricerche, ma la storia lo ha poi portato in tutt’altra direzione”. “È diventata la storia di Freddie” prosegue la Sellar. “In un certo senso Freddie è il classico outsider che entra in una comunità, e la trasforma. E quello che ne viene fuori è una specie di tragica love story tra Freddie e il Maestro. Freddie aspira a far parte di qualcosa di più grande di lui, eppure non riesce a legarsi completamente a qualcosa. E il Maestro vede Freddie come il figlio che non ha mai avuto, ma non riesce a far funzionare le cose”. Anderson dice di aver letto molti libri dell’epoca, da Steinbeck a L. Ron Hubbard, ma osserva che “a meno che tu non stia girando un documentario o una biografia, è auspicabile che il confine tra ricerca e immaginazione resti molto confuso”. E in effetti, mano a mano che la sceneggiatura è progredita, l’immaginazione ha preso il sopravvento e la Causa è stata rappresentata come un’entità distinta, un surrogato di famiglia vulnerabile alle potenti forze e alle dinamiche ingannatrici dei rapporti di sangue. Ciascuna scena è densa di una dicotomia tra rivalità e amore, aspirazione e confusione che agita i protagonisti. “Quando guardo ora il film, vedo Freddie e il Maestro come due persone che vorrebbero disperatamente stare insieme e creare un legame” osserva Anderson parlando dei due. “Credo che ognuno dei due trovi la sua forza nell’altro, ma che allo stesso tempo provi l’impulso di far emergere le debolezze dell’altro. Li vedo entrambi come uomini generosi con modi molto diversi di comunicare ciò che hanno da offrire”. Quando la versione finale della sceneggiatura ha preso vita sul set, si è trasformata in una specie di incubo febbrile sui temi del dopoguerra – ruotanti attorno al bisogno di dare un senso autentico alla famiglia, alla fede, al successo, ai legami – messi in scena in modo del tutto inedito. Dice il produttore Daniel Lupi, che ha lavorato a tutti i film di Anderson dall’inizio della sua carriera: “Questa sceneggiatura ci ricordava molto Boogie Nights, perché quel film che sembra essere ambientato nell’industria della pornografia, è in realtà incentrato sui rapporti tra membri di un’insolita famiglia. Anche la Causa è un po’ come una famiglia complessa”. Mentre gli elementi creativi e artistici prendevano forma, ulteriore sostegno è arrivato da Megan Ellison, fondatrice dell’Annapurna Pictures, nata per promuovere film d’autore con una visione personale come quella di Anderson. “Megan Ellison è apparsa come un angelo: è arrivata e ha detto ‘Adoro questo progetto, facciamolo’”, ricorda la Sellar. “Quello è stato il momento in cui le cose sono partite davvero”.
I PERSONAGGI
Al centro del dramma di The Master c’è Freddie che alla fine della Seconda Guerra mondiale, durante la quale ha prestato servizio come marine, torna a casa in preda ad uno stato di furia latente e di inquietudine: un essere umano allo sbando senza uno scopo, un’anima persa incapace di dare un senso al suo futuro. Prova a lavorare come fotografo, ma non riesce a tenersi un impiego, e neanche a reggere gli intrugli alcolici che lui stesso si prepara. Finirà con l’infastidire un emigrante clandestino su una nave su cui si sta svolgendo una festa di matrimonio, precipitando così il suo fatale incontro con Lancaster Dodd, e con un apprendistato che non avrebbe mai immaginato di intraprendere. Con il rafforzarsi dell’amicizia tra Dodd e Freddie, quest’ultimo vedrà cambiare il proprio ruolo che passerà da quello di cavia per le sperimentazioni del metodo di Dodd, a quello di suo seducente alter ego per finire col diventare il suo braccio destro al servizio della Causa. Joaquin Phoenix, candidato all’Oscar® una prima volta per la sua interpretazione dello spietato Imperatore Commodo ne Il Gladiatore, e una seconda volta per quella del leggendario artista Johnny Cash in Quando l’amore brucia l’anima, tira fuori nel film quegli impulsi animali e violenti di Freddie che confondono e allo stesso tempo attraggono il Maestro. Anderson l’ha osservato entrare nel personaggio e renderlo sul set ai massimi livelli. “Mentre lavoravo alla sceneggiatura, Joaquin ha cominciato a venirmi in mente per il ruolo di Freddie”, ricorda Anderson. “Per 12 anni gli ho chiesto di interpretare i miei film e lui ha sempre avuto un motivo per non farlo. Gli sono riconoscente per aver detto di sì questa volta”. Lancaster Dodd, il leader della Causa, pieno di palpabili contraddizioni, filosofo e autore delle idee che ispirano il movimento, è l’uomo che riesce a soggiogare Freddie. Sebbene abbia carisma, intelligenza, cultura e sicurezza da vendere, Dodd mostra tracce di malignità, paranoia e carenze che a tratti appaiono sotto la sua esuberante e seducente apparenza. A mescolare tutte le sfumature di questo singolare personaggio ci ha pensato Philip Seymour Hoffman, vincitore di un Oscar® per Capote, che ha già collaborato in passato con Paul Thomas Anderson per i film Boogie Nights e Magnolia. Dice Anderson: “Phil ed io siamo sempre alla ricerca del modo per continuare a lavorare insieme. Abbiamo cominciato a collaborare fin da quando stavo solo abbozzando la sceneggiatura, alla quale Phil ha poi dato un enorme contributo”.
JoAnne Sellar aggiunge: “Era già stabilito che Phil avrebbe interpretato il Maestro. Ha contribuito con molti suggerimenti alla sceneggiatura di Paul”. Se Lancaster Dodd rappresenta il volto della Causa, dietro le quinte agisce un’altra potenza che contribuisce a rafforzarla: sua moglie Peggy, apparentemente modesta, ma in realtà una donna di ferro. A rivelare con grande finezza l’influenza di Peggy c’è l’interpretazione di Amy Adams, tre volte candidata agli Oscar® per i ruoli interpretati nel film indipendente Junebug, nell’adattamento di John Patrick Shanley di Il dubbio e per il ruolo della grintosa fidanzata del pugile Micky Ward in The Fighter. La Adams ancora una volta si trasforma completamente per un ruolo del tutto diverso da quelli interpretati fino ad oggi. Racconta Anderson: “Secondo me Amy non può sbagliare. Me ne sono convinto guardando film come Prova a prendermi, Come d’incanto o The Fighter. È una delle nostre migliori giovani attrici. Phil ha lavorato con lei diverse volte e la apprezza moltissimo, per cui è stata una scelta facile. E, di nuovo, sono felice che abbia accettato“. “Amy interpreta il ruolo di Peggy Dodd come una specie di Lady Macbeth”, osserva la Sellar. “Lei è la vera credente della storia”.
LA FOTOGRAFIA
Sebbene The Master sia un’opera di pura fiction, Paul Thomas Anderson ha deciso di rappresentare il mondo della Causa con un realismo maniacale, in grado di trasportare gli spettatori indietro nel tempo. Per catturare sia i dettagli autentici di quegli anni che gli ambienti ideati per la Causa e ricreati sia in mare che a terra, ha lavorato con una troupe di grandi professionisti, molti dei quali hanno ormai dato vita a loro volta ad una specie di famiglia che si riunisce regolarmente in occasione della produzione dei suoi film. Una decisione fondamentale, una vera intuizione, ha immediatamente reso il film unico nel suo genere: la scelta di Anderson di girare The Master in 65mm, un formato di pellicola ormai rarissimo. Fin dall’inizio sapeva di volere ottenere un preciso look vintage e, dopo essersi immerso nei toni vibranti e nella grana tipica delle immagini di classici degli anni ’50 come La donna che visse due volte e Intrigo internazionale, Anderson ha voluto riprodurre quel lussureggiante trionfo di colori supersaturi, unendolo al proprio stile caratterizzato da un certo asciutto lirismo. Per riprese che mostrano immagini molto diverse, dal mare agitato ai chiaroscuri che emergono dalle personalità dei protagonisti, il 65mm è apparso come la soluzione perfetta per rendere al meglio l’eterogeneità della storia. C’è stato un tempo in cui il 65mm era all’apice del successo per le lavorazioni cinematografiche, ma oggi è relegato nella maggior parte dei casi a film girati in IMAX® e in altri grandi formati. Nel periodo d’oro dei film epici hollywoodiani girati in formato panoramico, società come la Todd-AO e la Panavision avevano accolto il 65mm come il mezzo in grado di offrire al pubblico le immagini più vivaci e nitide, dalle panoramiche fino ai più stretti primi piani. Numerosi classici degli anni ’60, compresi Lawrence d’Arabia, West Side Story, Gli ammutinati del Bounty, Lord Jim, My Fair Lady e 2001: Odissea nello spazio hanno dimostrato la potenza di questo formato e la sua capacità di offrire maggior vigore alle immagini. A partire dagli anni ’70 però il costo crescente della pellicola ne ha determinato un rapido declino. Una breve rinascita negli anni ‘80 lo ha fatto rivivere per un qualche tempo per film come Brainstorm-generazione elettronica, Tron e The Black Cauldron. Più di recente i soli film girati interamente in 65mm sono stati Amleto di Kenneth Branagh del 1996 e i film non narrativi di Ron Fricke Baraka e Samsara. Inception e The Dark Knight-Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e The New World di Terrence Malick, pur presentando alcune sequenze girate in 65mm e alcuni effetti speciali, sono stati girati essenzialmente in 35mm. Anderson racconta che la sua scelta è nata come un esperimento, ma poi si è trasformata in una ferma decisione una volta verificato quanto il formato fosse adeguato allo stile narrativo di The Master. “Inizialmente l’idea mi era stata in qualche modo suggerita da Dan Sasaki, il tecnico della Panavision, dopo le mie richieste di informazioni sulle macchine da presa Vista Vision degli anni ‘50, che gli avevo fatto un po’ per curiosità e un po’ per capire come quei film degli anni ’50 riuscissero ad ottenere quel particolare aspetto visivo”, spiega. E prosegue: “Abbiamo iniziato a girare con una Studio Camera 65 mm e tutto quello che ne veniva fuori ci sembrava perfetto. Offriva immagini meravigliose e potenti, ma più che per la risoluzione o cose del genere, perché sembrava adattarsi perfettamente alla storia e ai personaggi. Alcune cose possono dare una sensazione di antico senza apparire ricercate o mera riproduzione di un particolare stile. È difficile per me spiegare e non posso fare altro che dire che sembrava funzionare bene”. JoAnne Sellar la pensa in modo analogo. “Era perfetto per un film con questa forza visiva”, dice. “Ma c’è stato bisogno di un vero processo di apprendimento perché molte competenze relative alle lavorazioni in 65mm sono andate perdute. Ha comportato delle considerevoli sfide. Siamo riusciti a trovare solo tre macchine da presa Panavision, perciò era un vero problema quando si bloccavano, e anche il processo in laboratorio è stato molto complicato”. Daniel Lupi aggiunge: “La Panavision si è data molto da fare per aiutarci nell’utilizzo di macchine da presa ormai inutilizzate da anni. Di tanto in tanto c’era con noi un tipo della Panavision che ci aiutava a gestire i problemi tecnici che potevano verificarsi con le macchine da presa”. Per tutto il periodo delle riprese Anderson ha anche utilizzato un proiettore 65mm per visionare i giornalieri. “Credo che sia una parte importante del suo processo creativo, guardare i giornalieri e adeguarvi la sua visione per le fasi successive” spiega Lupi. “Ha un modo di procedere molto organico”.
LA SCENOGRAFIA
Nel raccontare le vicende di Freddie la storia di The Master compie dei salti temporali, partendo dalla sua giovinezza vissuta negli ambienti operai del Massachusetts alle spiagge popolate di reduci a Guam, fino allo yacht a San Francisco e al primo quartier generale della Causa in quella che sembra una casa tradizionale della Pennsylvania – e ciascun luogo aggiunge elementi alla sua mutevole relazione con Lancaster e Peggy Dodd. Com’è sua abitudine, Anderson ha cominciato a pensare al design del film fin dall’inizio utilizzando le immagini che aveva raccolto. “Paul ha trascorso un sacco di tempo a guardare vecchie foto per appropriarsi del senso del luogo e del tempo” dice Daniel Lupi. “Alla fine abbiamo girato la maggior parte del film in California, sia nella zona della Baia che nei deserti della California del Sud, con un viaggio alle Hawaii per le scene con la spiaggia che aprono e chiudono la storia“. Anderson ha poi cominciato a scambiare delle idee con lo scenografo Jack Fisk – con il quale ha spesso collaborato in passato e che ha ricevuto una candidatura agli Oscar® per le scene de Il Petroliere – e con il suo collega David Crank, collaboratore alle scenografie de Il Petroliere. Fisk ha letto una bozza della sceneggiatura 18 mesi prima dell’inizio della produzione, cosa che ha permesso alle sue idee di prendere forma lentamente, un po’ alla volta. “Subito sono rimasto colpito dall’entusiasmo di Paul per questa storia” ricorda Fisk. “La passione per me è la componente principale di un processo creativo”.
Per un intero anno prima dell’inizio delle riprese lui e Anderson hanno visitato diverse location. “Andare in giro per location con Paul è un’esperienza molto creativa” osserva Fisk. “È un po’ come trovare dei pezzi di un puzzle, ogni pezzo collegato all’altro, fino a quando il film non comincia a prendere forma – e cerco sempre di non fossilizzarmi su alcune idee fino a quando non conosco tutte le opzioni. Il fatto che Paul abbia creato nella sua storia dei personaggi così reali e così pieni di sfumature, ci ha spinti a creare dei set che fossero all’altezza della scrittura e della recitazione”. L’obiettivo di Fisk per il mondo di Freddie era di farlo apparire subito naturale e vissuto. “Credo che la sfida del design per un film naturalistico come The Master sia riuscire a farlo sembrare in un certo senso ‘non costruito’. L’ambizione è quella di eliminare tutti gli elementi superflui che potrebbero distogliere l’attenzione del pubblico dalle interazioni tra i personaggi” riflette. “Detto questo, mi sono divertito molto a ricreare luoghi come i grandi magazzini degli anni ’40”. (La squadra ha costruito i magazzini dalle fondamenta in un edificio abbandonato nel centro di Los Angeles). Le molte sequenze del film ambientate su una nave (Freddie e Dodd scoprono di avere in comune un passato nella Marina) ha portato la produzione nella città di Vallejo, appena a nord-est di San Francisco, e a Mare Island, la vicina penisola con una interessante storia navale tutta sua. Per l’imbarcazione di Lancaster Dodd, sulla quale Freddie parte come clandestino, è stata usata la USS Potomac, una storica imbarcazione che in passato era stata usata come yacht presidenziale da Franklin Delano Roosevelt tra il 1936 e il 1945. Lo yacht era stato poi acquistato da Elvis Presley, che l’ha donato in beneficenza; poi l’imbarcazione è stata usata per il traffico di droga, prima di affondare ed essere alla fine recuperata dalla Marina degli Stati Uniti. Oggi è un museo nella Jack London Square di Oakland. “Si tratta di una nave tutta in metallo perché Roosevelt aveva molto paura degli incendi a bordo”, osserva Fisk. “Abbiamo riarredato l’ambiente principale diverse volte per utilizzarlo per le diverse stanze previste per la nostra nave e poi abbiamo ricostruito una parte degli interni in studio a Los Angeles per le scene iniziali molto intense tra Joaquin e Philip”. Prosegue: “La nostra prima preoccupazione era quella di essere sicuri che le ricostruzioni nei teatri di posa funzionassero in modo uguale alle scene girate sulla vera nave nelle acque di San Francisco e che ci fosse abbastanza spazio perché Paul potesse lavorare con la macchina da presa. Abbiamo discusso a lungo su come fare in modo che il set potesse essere mosso liberamente per dare la percezione del dondolio di una vera nave in mare aperto, ma alla fine ci siamo resi conto che era molto semplice replicare la costruzione della nave originale, e la potenza delle scene era migliore di qualsiasi effetto avessimo deciso di aggiungervi dopo”. A Vallejo Fisk e Crank hanno trovato l’edificio giusto per rappresentare il posto in cui Freddie trova la sua casa a Filadelfia in seno alla Causa, un luogo denso di emozioni contrastanti per lui. Fisk cercava una casa che apparisse in un certo senso tradizionale, ma all’interno della quale si agitano drammi nascosti. “Mi affascina l’idea di non sapere cosa succede dietro le porte di molte delle case che vediamo quotidianamente” dice. “Abbiamo usato una casa a Mare Island che era stata originariamente costruita per gli Ammiragli della Marina ed è realizzata in uno stile molto East Coast, perfetta per i nostri scopi. Lavorando con la pittura e alcuni arredi siamo riusciti a renderla credibile per una casa di Filadelfia. Molto ordinaria e tradizionale, offre un bellissimo contrasto con le nuove idee sperimentali del Maestro”. Pensando al primo quartier gerenale della Causa, Fisk teneva presenti le aspirazioni alla base del movimento. “Sono consapevole di quanto appassionatamente le persone cerchino delle risposte e un senso alla propria vita” dice. “Abbiamo esaminato diversi edifici occupati da piccolo gruppi religiosi solo per coglierne l’atmosfera, e sono rimasto colpito dalla loro somiglianza al quartier generale della nostra storia”. Un’altra location importante era la sala cinematografica d’epoca in cui il prodigo Freddie sogna una chiamata dal Maestro. Questa scena è stata girata al Los Angeles Theatre, una sala cinematografica della fine degli anni ‘30 ancora in piedi al centro di Los Angeles, che conserva tutto il glamour sontuoso di un’epoca lontana. “È una location che ha funzionato perfettamente proprio così come l’abbiamo trovata”, racconta Fisk. Avendo lavorato diverse volte con Anderson in passato, Fisk sintetizza il loro rapporto dicendo che è incentrato su tre elementi fondamentali: “Umorismo, duro lavoro e fiducia reciproca”. Sono gli stessi elementi che hanno fatto sì che anche il creatore dei costumi Mark Bridges, che ha collaborato a tutti i film di Paul Thomas Anderson, abbia deciso di tornare a lavorare con lui. Sebbene ciascun film sia completamente diverso dal precedente – costringendo Bridges a passare dall’abbigliamento della disco alle salopette da lavoro dell’inizio del XX° secolo – il costumista è rimasto subito affascinato dal progetto di The Master. “Ero molto colpito da Paul che era così preso all’idea di ricreare un intero mondo in trasformazione dopo la Seconda Guerra mondiale, negli anni in cui apparvero tutti quei movimenti popolari intenti a trovare un senso da dare al mondo”, racconta. “È un’idea con cui nessuno si era cimentato prima sulla schermo”.
L’ambientazione del film proprio nel 1950, all’inizio di un nuovo decennio e alla vigilia di enormi cambiamenti nel costume e nella cultura, era particolarmente affascinante per Bridges. “Adoro lavorare sui periodi di transizione, in cui le cose mutano”, riflette il creatore dei costumi. “Il 1950 era proprio nel mezzo di grandi cambiamenti, così erano presenti molti elementi stilistici dei primi anni ‘40, con echi di spalline, ma la moda stava già annunciando gli anni ‘50. Nell’insieme volevamo che tutto apparisse modesto e autentico, con un tocco di leggerezza”. Bridges, oltre a quelle compiute personalmente, ha utilizzato molte delle ricerche effettuate da Anderson, e ha cominciato a studiare con attenzione il look dell’epoca per creare i costumi di ciascun personaggio. Per Philip Seymour Hoffman uno dei pezzi distintivi è l’elegante abito verde che Lancaster Dodd sfoggia la prima volta che Freddie lo incontra. “Volevamo che somigliasse molto ad uno scrittore” spiega Bridges. “Quel completo verde funzionava con il colorito di Phil ma mostrava anche che quella persona era un po’ diversa dalle altre. Ha l’aspetto dell’uomo d’affari, ha una moglie più giovane di lui ma c’è anche qualcosa in lui che mette un po’ a disagio – e tutte queste idee erano importanti per immaginare come dovesse vestirsi”. Tra gli altri costumi preferiti da Bridges per Dodd ci sono i suoi appariscenti pigiama rossi. “Hanno qualcosa di molto intenso: lui potrebbe essere il diavolo, potrebbe essere il messia, e qualunque cosa sia, quella scena in cui parla con Freddie è molto emozionante”. Freddie ha una sensibilità molto diversa, essendo passato dal conformismo delle uniformi militari ad un’esistenza da vagabondo. Il suo primo lavoro come fotografo in un negozio ce lo mostra con i suoi abiti più ricercati, ma si vede che è a disagio. “Abbiamo trovato alcuni eccentrici cappotti sportivi del 1943”, racconta Bridges, “che avevano queste spalle enormi ed erano fatti di quella lana così spessa che oggi è impossibile vedere in giro. Erano perfetti per Freddie in quel momento perché trasmettono la sensazione che lui sia irritato da quegli abiti e abbia costantemente bisogno di toglierseli”. Quando, imbarcatosi clandestinamente, incontra Lancaster Dodd, Freddie si è liberato di quell’abbigliamento e di quella vita. “Quando all’inizio Freddie si unisce alla Causa, volevamo che si sentisse davvero come un vagabondo e l’idea era che probabilmente avrebbe indossato solo gli abiti che gli altri membri avevano raccolto per lui” continua Bridges. “Ma, mano a mano che risale la gerarchia nella Causa, il suo abbigliamento si fa sempre più raffinato”. Alcune delle idee più interessanti di Bridges appaiono negli abiti prémaman anni ’40 di cui è andato a caccia per Amy Adams, che interpreta Peggy Dodd – abiti che distolgono l’attenzione dal corpo per portarla interamente sul volto dell’attrice. “Abbiamo trovato alcuni capi perfetti per Peggy ed Amy li ha indossati in modo molto disinvolto. È stata davvero molto sportiva e si è comportata benissimo” commenta. “Era un grosso cambiamento rispetto a The Fighter, per il quale avevamo entrambi lavorato”. Oltre ai personaggi principali, Bridges si è divertito a vestire una grande varietà di persone nelle quali Freddie si imbatte nel suo percorso dalla Marina alla Quinta Strada, dalle fattorie al deserto, ai pub inglesi. “Si trattava di tipologie di abbigliamento molto diverse tra loro” sintetizza, “e ciascuna persona e ciascun luogo dovevano avere una propria personalità. Ma Paul fa delle ricerche talmente approfondite da trasformarsi in un vero collaboratore. E poi ci sono io che vado e vengo per proporgli idee e suggerimenti e vedere cosa ritiene interessante”. Quando le riprese principali di The Master si sono concluse, Anderson ha lavorato con i montatori Leslie Jones e Peter McNulty per intrecciare le immagini dando loro quel ritmo e quell’andamento che contraddistingue il suo stile. McNulty ha realizzato una prima versione e poi Jones, che ha ricevuto una candidatura agli ACE per il montaggio del film di Anderson Ubriaco d’amore, è salita a bordo. È rimasta assolutamente colpita dalle riprese. “Peter aveva fatto una bellissima prima versione del film ed ero impressionata dalla complessità dei personaggi di Freddie e del Maestro e dalla profondità del loro rapporto. Ero sorpresa da come la storia d’amore tra questi due uomini diventasse il centro del film con così tanta delicatezza” osserva. Ha trascorso i successivi sei mesi a lavorare a stretto contatto con Anderson per perfezionare la forma finale della narrazione. “La sfida principale nel montaggio consisteva nel concentrare l’attenzione sul rapporto tra Freddie e Dodd, e collegare gli insegnamenti del Maestro con le difficoltà che Freddie affronta nella sua vita, con la sua sensazione di essere sempre in fuga da qualcosa”, spiega la Jones. “Alla fine abbiamo scoperto che più eravamo concentrati sulle esperienze di Freddie più si faceva per noi convincente il suo bisogno di avere un ‘Maestro’. E, ad un certo punto, i personaggi in quanto singole individualità sono diventati meno importanti di questi due uomini e del loro reciproco attaccamento”. Mentre le riprese in 65mm non hanno creato alcun problema in fase di montaggio, sono diventate una vera sfida nella preparazione della stampa per la distribuzione. Spiega la Jones: “Raramente ho fatto differenze tra i due formati mentre li visionavo. Né ci sono state delle scelte di montaggio fatte sulla base del 65mm. È solo quando il film è stato completato che abbiamo iniziato a lavorare con Fotokem per le stampe che la differenza si è dimostrata importante. Dovevamo preparare la versione definitive del film sia per il 70mm che per il 35mm, ed è stato come lavorare per due film diversi. E siccome a Paul piace lavorare alla finitura del film, abbiamo dovuto tagliare i negativi e sincronizzare i fotogrammi con il processo analogico tradizionale, cosa che ha richiesto un sacco di tempo”. Ma conclude JoAnne Sellar: “Nonostante tutte le complicazioni nell’usare il 65mm, credo che per Paul ne valesse veramente la pena. È un tentativo per salvaguardare la bellezza di un vero film in pellicola”.
LA MUSICA
Mentre si chiudeva il montaggio, venivano apportati gli ultimi tocchi alla colonna sonora di Jonny Greenwood, compositore e chitarrista dei Radiohead che aveva già ottenuto grande apprezzamento per la sua incantevole colonna sonora de Il Petroliere. Quella stessa sinergia basata sul contrappunto tra le vivide e potenti immagini di Anderson e le seducenti dissonanze di Greenwood appare in The Master, ma in modo nuovo e diverso. Greenwood era rimasto subito colpito dalla storia. “Mi ha impressionato l’ottimismo dell’epoca: questa figura carismatica, l’idea che ci fossero nuove strade per curare gli ‘ammalati’, e tutti quei seguaci entusiasti”, racconta il compositore. “C’è qualcosa di dolce in tutto questo: tutti questi americani della classe media sul punto di intraprendere qualcosa di nuovo e di strano. E in mezzo a tutti loro Freddie, che se ne sta lì con le mani dietro la schiena, cercando di dare un senso alla sua vita”. Per ispirarsi, Greenwood e Anderson hanno discusso della musica di Otto Leuning, che negli anni ’50 è stato uno dei pionieri della musica elettronica, scoprendo suoni mai ascoltati prima e utilizzando come strumenti per riprodurli nastri magnetici e microfoni. “Parte della musica del film è stata registrata usando una tecnologia analoga”- osserva Greenwood – “giocherellando con la velocità dei nastri, la direzione dei microfoni e altre improbabili tecniche”. Greenwood ha tratto ispirazione anche dal jazz degli anni ’50 e dalla musica classica. “C’è qualcosa che somiglia ai piano-less trio dell’epoca ma suonato più come avrebbero fatto i compositori classici di quegli anni”, spiega. Per tutto il tempo Greenwood e Anderson hanno lavorato nel modo che li distingue ovvero, come dice il regista, come uno scambio di idee. “Jonny proponeva alcune idee di base e io reagivo in un modo o in altro e poi cominciavamo ad esaminarle e a riesaminarle. È come la scena del ‘tocco del muro’ nel film. Pensavo di essere io il Maestro e lui Freddie”, racconta divertito Anderson. “Ma poi mi rendevo conto di essere io Freddie e lui il Maestro e improvvisamente c’era tutta quella musica straordinaria a mia disposizione”. Molto importante per Greenwood era concettualizzare i personaggi dal punto di vista di Anderson. “Una cosa che Paul ha voluto sottolineare è che il personaggio di Freddie, nonostante la violenza e l’alcool, è un personaggio abbastanza amabile. ‘Non dimenticare la dolcezza di Freddie’ è stato uno degli appunti che mi ha fatto avere”, ricorda Greenwood. “Paul punta molto sulla musica, ha molte idee su cosa possa funzionare, e spesso le esprime in termini che non hanno niente a che vedere con la musica, cosa che mi aiuta e mi libera molto”. Riassumendo la sua esperienza, Greenwood fa eco a molti altri, dicendo: “Quando lavori con Paul, diverse sensazioni si agitano dentro di te: eccitazione, entusiasmo e desiderio di fare il massimo consentito. È una rara combinazione di divertimento spensierato e duro, ossessivo lavoro”.
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