ITAKER SINOSSI VIETATO AGLI ITALIANI – NOTE DI REGIA

SINOSSI

 

 

Itaker è il racconto di un viaggio dall’Italia alla Germania, nel 1962. Un viaggio particolare: a compierlo è Pietro, un bambino di 9 anni orfano di madre, partito per ritrovare il padre emigrato, di cui da tempo non si hanno notizie. Insieme a lui un sedicente amico del padre, Benito Stigliano, un giovane uomo dai trascorsi dubbi in cerca in Germania di un riscatto personale, e pronto a qualsiasi cosa per ottenerlo.

Sul loro percorso Pietro e Benito incontrano mondi diversi: quello della fabbrica di Bochum, la comunità italiana in città (gli itaker, “italianacci”, uno dei tanti appellativi degli emigrati italiani in Germania);  il mondo dei magliari, del contrabbando – fatto di valigie ed espedienti – quello della convivenza non sempre pacifica tra italiani e tedeschi. Diverse piccole patrie in cerca di identità.

Sullo sfondo di una storia cruciale ma poco ricordata, il racconto di una crescita e della lotta sempre presente tra sopravvivenza e sentimenti.

 

 

 

NOTE DI REGIA

 

 

 

È un luogo comune, oggi, paragonare la vicenda storica degli italiani emigrati nel mondo con quella dei tanti immigrati extracomunitari che, nella speranza di riuscire a riscattare una vita fatta di stenti e difficoltà nei paesi di origine, sono arrivati in Italia negli ultimi quindici anni. Eppure quelle che realmente sono state le difficoltà dei nostri connazionali all’estero, in un periodo in cui il nostro paese cercava faticosamente di risollevarsi dalle rovine della guerra, raramente sono state affrontate dal nostro cinema.

 

La storia di Itaker (ovvero “italianacci”, uno dei tanti appellativi affibiati agli emigrati italiani in Germania), anche se si svolge negli anni sessanta, vuole, in tal senso, porsi come il riflesso di una situazione di instabilità culturale e di estrema insicurezza, attualissima nell’Italia dei nostri giorni e in molti altri paesi europei.

 

Pietro ha nove anni e deve trovare suo padre, che conosce a malapena visto che fa l’operaio in Germania e da molto tempo non dà sue notizie. Non ha nessuno e la regola vuole che un bambino abbia sempre qualcuno che si occupi di lui. Ad accompagnarlo in questa ricerca, attraverso una terra difficile e apparentemente ostile come la Germania, trova Benito, un uomo con l’animo e l’ingenuità di un bambino.

 

II nostro racconto parla del tentativo di recuperare un’identità: l’approdo a cui giunge Pietro, il piccolo protagonista, sta nel comprendere quanto tale identità non consista solo nel ritrovare un legame con le proprie origini ma sia, innanzitutto, il frutto di uno scambio di esperienza e di vissuto. Pietro e Benito, alla fine del percorso, maturano un’idea della vita più compiuta e aperta rispetto a quella che avevano all’inizio.

 

C’è un elemento in questa storia che mi ha attratto particolarmente e che vorrei venisse fuori per gli spettatori che vedranno il film: raccontare il dramma dell’emigrazione attraverso la vicenda di un bambino restituisce al fatto storico tutta la profondità di una metafora cristallina e chiarissima. Quell’esperienza, per chi l’ha vissuta – e per chi, direi, continua a viverla – rappresenta certo un’esperienza drammatica dal punto di vista sociale e umano, ma è anche una sorta di prova di iniziazione attraverso cui passare per maturare una visione dell’esistenza più definita e precisa. Mi piace pensare che lo sguardo del piccolo Pietro rifletta quello di tanti emigranti che sono partiti dalla loro terra ingenui e sprovveduti come bambini e hanno maturato un percorso umano che li ha predisposti al confronto e alla complessità della vita.

 

Gli sviluppi della vicenda raccontata nel film sono il frutto della commistione tra elementi inventati e sintesi di storie realmente accadute, sentite o lette nel corso di una approfondita documentazione. La scelta stessa di ambientare la storia tra il Trentino e la baraccopoli operaia di Bochum Wattenscheid, nella regione della Nord-Westfalia, ovvero in quella che al tempo in cui il racconto si svolge, era la Germania Occidentale, proviene dai suggerimenti di testimoni diretti, utilissimi per chiarire e arricchire importanti nodi narrativi. La scrittura della sceneggiatura ha comportato dunque, al fine di assicurare al film una maggiore solidità narrativa e un approfondimento delle dinamiche e del contesto spazio-temporale in cui la storia si svolge (siamo nel 1962, negli anni che seguono di un soffio il boom economico), una documentazione dettagliata e analitica, attraverso la consultazione di materiali museari, fotografici e audiovisivi legati al contesto da rappresentare, l’ascolto di testimoni diretti e la visita ai luoghi in cui è ambientato il racconto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riguardo alle questioni più specifiche di messa in scena, mi sono sforzato di dare al film un apparente carattere realistico, che si lascia però squarciare da quella leggerezza e da quella sospensione che solo il punto di vista di un bambino che osserva il mondo può assicurare.

 

Ho cercato di avere un gran rispetto, filmando questa storia, del tempo dei personaggi, del loro modo di essere al mondo: il mio è stato un percorso di progressivo avvicinamento ai personaggi, nel tentativo di aderire emotivamente al loro sguardo sulle cose.

 

In tal senso fondamentale è stato il lavoro degli attori, con i quali abbiamo cercato di restituire, oltre all’aderenza fisica, l’interiorità dei personaggi, uomini e donne impreparati al distacco, ma decisi a conservare una dignità che potesse riscattarli dai compromessi che la vita li ha portati a fare.

 

Francesco Scianna ha dato al personaggio di Benito tutta la sua umanità e simpatia, percorrendo strade decisamente nuove rispetto a quelle che aveva percorso fino al momento in cui abbiamo iniziato a girare. Coraggiosamente ha accettato di interpretare – lui, siciliano – un giovane napoletano un po’ guitto, senza mai risparmiarsi davanti e dietro alla macchina da presa. A lui devo gran parte del piacere di questa esperienza creativa e umana. Accanto a Francesco, il piccolo Tiziano Talarico, scelto dopo un lunghissimo casting, che si è lasciato accompagnare lungo il complesso percorso della lavorazione del film, con lo spirito di chi scopre la vita nel suo dispiegarsi, senza mai complicare il lavoro e far pesare la sua condizione di bambino in mezzo a degli adulti. Il film è impregnato della sua presenza discreta e incantata e nel suo sguardo ho avuto la possibilità, senza troppo sforzo, di trovare quella pulizia e quella consapevolezza con cui i bambini si rapportano alla complessità della vita. Sono stato davvero molto fortunato a poter condividere l’esperienza di questo film con un gruppo di attori straordinari e generosi come Monica Birladeanu, Michele Placido, Nicola Nocella e tutto il resto del gruppo, che mi hanno aiutato a raggiungere un risultato importante anche quando pensavo fosse irraggiungibile.

 

L’apparato tecnico è stato essenziale, ma l’intenzione era di ricercare un particolare carattere visivo, lavorando in particolar modo sul colore e sul taglio delle inquadrature, costruite tenendo conto della necessità di rapportare la vicenda individuale dei protagonisti di questa storia allo sfondo, sempre definito, mobile, vivo. Un risultato importante è stato raggiunto anche in questo caso, anche grazie all’apporto di Arnaldo Catinari, il quale non ha mai sovrastato, con la sua perizia ed esperienza, la misura che speravo di riuscire a dare alle immagini del film.

 

Particolare cura è stata riservata al sonoro, essendomi posto la necessità di tener conto di un pastiche linguistico basilare in un racconto come quello in questione: i personaggi parlano in italiano, ma si sentono il tedesco, le cadenze dialettali, oltre che le parlate dei personaggi secondari di provenienza straniera.

 

Un’ultima nota riguardo all’ambientazione storica: siamo negli anni sessanta, ma l’idea era di non voler fare un film in costume (ovvero un film di semplice ricostruzione storica). Ho cercato l’essenzialità nella rappresentazione, spogliando la messa in scena di tutti gli orpelli che avrebbero caricato il racconto di compiacimento formale ed estetismo. Nonostante la vicenda si svolga nel passato, la mia idea era di fare un film agile e moderno, senza sbavature, adatto ai ritmi e alla visione del pubblico contemporaneo. Spero di esserci riuscito.

 

                                                                                                       

 

                                                                                                           Toni Trupia

 

 

TONI TRUPIA

 

È nato ad Agrigento il 6 maggio 1979. Nel 1996, dopo il diploma, si trasferisce a Roma dove, nel 2001, dopo varie esperienze che lo vedono impegnato tra cinema e televisione, comincia a frequentare il corso di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. A questa data ha già diretto alcuni cortometraggi, tra cui “Rigor Mortis” (Arcipelago 1998) e “Punti di vista: Favara Sconosciuta”. Nel 2003 è assistente alla regia di Mario Monicelli per il cortometraggio “L’appello di un amico”. Tra i suoi lavori successivi “Fazzu tozza e jettu‘o ventu” (2001 – Arcipelago 2002), “La morte del vecchio” (2002 – Taormina Film Festival; European Film Festival), “Za La Mort” (CortoLazio 2003), “Tita” (Anteprima Spazio Giovani – Torino Film festival).

 

Cari amici vicini e lontani (2004), uscito nelle sale, è il suo saggio di diploma.

 

Nel 2005 è stato assistente alla regia di Michele Placido per il film “Romanzo Criminale”. L’Uomo Giusto è il suo primo lungometraggio.

 

Ha insegnato regia alla Nuct – Scuola Internazionale di Cinema e Televisione di Cinecittà.

 

È tra gli autori della sceneggiatura del film “Vallanzasca-Gli Angeli del male”, diretto da Michele Placido e interpretato da Kim Rossi Stuart.

 

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