IO e TE… e PARLA BERNARDO BERTOLUCCI

IO e TE… e   PARLA BERNARDO BERTOLUCCI

INTERVISTA

Nella conferenza stampa al termine delle riprese di “IO e TE”, lei ha dichiarato che, appena due anni fa, pensava che non avrebbe più fatto cinema.

In effetti, data la mia forzata immobilità avevo pensato, come si dice, di tirare i remi in barca. Già tra il 2006 e il 2007 avevo accantonato ogni progetto, compreso quello di un film su Gesualdo Da Venosa, il grande musicista del ’500; si trattava di un progetto molto ambizioso, ambientato a Napoli, in quel secolo il più grande porto d’Europa. Un grande sforzo in termini di ricostruzioni, scenografie, costumi più un grande cast internazionale. L’idea di non fare più film voleva dire chiudere un capitolo e aprirne un altro, chissà quale. Poi due anni fa Niccolò Ammaniti mi portò “Io e te”, fresco di stampa. Mi affascinava l’idea di trasformare l’apparente claustrofobia di una cantina in una forma di claustrofilia, amore per il chiuso.

 

Non c’è stato un passaggio, un’immagine, un momento nel corso della lettura che ha fatto scattare la scintilla?

La lettura delle prime pagine del libro e l’impossibilità di chiuderlo prima di averlo finito. Cosi dopo tre ore sapevo quello che avrei detto a Niccolò.

 

Ne è nato un film tutto italiano, ciò che non accadeva dai tempi di “La tragedia di un uomo ridicolo”.

Più o meno da trent’anni. Avevo una grande voglia di sentire la lingua italiana in un mio film, e di girare in Italia, con attori italiani.

 

E con una produzione tutta italiana.

Mi sono reso conto che le dimensioni del film mi permettevano di tenerlo ‘sotto controllò e che potevo produrlo io, con la mia vecchia Fiction, così come avevo già fatto con “L’assedio”. Mi sono guardato attorno e ho trovato Mario Gianani, un giovane produttore che ammiravo da tempo per i suoi lavori così ambiziosi, cosi “difficili”. Era la persona giusta.

 

Inizialmente ha valutato la possibilità di girarlo in 3D. Che cos’è che la attirava del tridimensionale?

L’idea di un film ambientato tutto in una cantina, mi spaventava. Correva il rischio di essere noioso. Ancora non mi rendevo conto di quanto potesse essere grande la cantina del film. Perché non farlo in 3D? Il 3D avrebbe aggiunto molta magia. Tutti quei mobili accatastati da anni e pieni di polvere avrebbero vissuto di più grazie alla profondità crudele del 3D. Abbiamo girato dei provini in 3D, a Cinecittà, con le migliori macchine da presa a disposizione, simulando un ambiente simile a quello in cui avremmo girato il film. Io sono abituato a girare piuttosto velocemente e da vari anni lavoro con Fabio Cianchetti, direttore della fotografia, che sa tenere il mio passo. Mi piace pensare che ogni inquadratura ne genera un’altra, che un’inquadratura partorisce la prossima e così via. Mi sono reso conto che il tempo per preparare le due cineprese del 3D avrebbe rallentato drammaticamente il flusso delle mie riprese e ho rinunciato subito.

Ho preso in considerazione anche il formato digitale. Ma la definizione dell’immagine era eccessiva, spietata, come se volesse cancellare il tono impressionistico che la pellicola ancora genera con la sua grana. Certo, si poteva utilizzare quel software che rende il digitale simile alla pellicola, spuntinature, ingiallimenti, finte degradazioni. A quel punto mi sono detto: tanto vale girarlo in pellicola.

 

Come avete lavorato in fase di sceneggiatura?

È stato molto più impegnativo di quanto uno possa immaginare trattandosi di un racconto di un centinaio di pagine. La fase di scrittura è durata 7-8 mesi, inizialmente con Niccolò Ammaniti e Umberto Contarello, e solo successivamente con Francesca Marciano. Marciano è intervenuta nell’ultima fase, quando ho pensato che il personaggio di Olivia avesse bisogno di un tocco femminile.

 

Tra il romanzo e il film ci sono alcune differenze: nel film, lui è incuriosito dagli animali e porta con sé un formicaio nella sua cantina-rifugio, lei è una fotografa… che cosa aggiungono questi elementi a Lorenzo e Olivia?

Non ne ho nessuna idea, quello che so è che io parto da un romanzo, e che questo, alla fine, sarà fatalmente trasformato. Non mi riesce di diventare l’illustratore di una storia, né mi interessa, forse non me ne sento capace. Ma le differenze cui lei accenna, non erano neppure in sceneggiatura, sono accadute durante le riprese.

Il formicaio viene da un racconto di mia moglie Clare che da bambina aveva ricevuto in regalo una scatola di legno, l’aveva aperta ed era  piena di formiche in movimento. Un regalo davvero vittoriano.

L’idea di fare di Olivia una fotografa viene direttamente e semplicemente dalla verità. Tea Falco si è portata nel film molta della sua personalità, incluse le sue esperienze artistiche. Anche qui Clare mi ha convinto che il personaggio non poteva essere semplicemente una “tossica”. Poteva e doveva essere qualcosa di più. Quel qualcosa se lo è portato dietro lei, Tea. I personaggi descritti in sceneggiatura nei miei film vengono arricchiti spesso da frammenti della vita degli attori che ho scelto. Per fare un esempio, in “IO e TE” le fotografie di Olivia sono veramente fotografie di Tea Falco.

 

Parliamo, dunque, della fase del casting.

Debbo moltissimo alla mia casting director e aiuto regista Barbara Melega. Ci sono voluti mesi di ricerche per trovare Lorenzo e Olivia.

Sono passate davanti a me praticamente quasi tutte le attrici italiane dell’età della protagonista, molte famose e altre del tutto sconosciute. In realtà mi piaceva l’idea di avere due volti nuovi, freschi, mai visti prima al cinema. La prima volta che ho incontrato Tea Falco le ho detto: “A cosa stai pensando?”. E lei mi ha risposto: “Che sarebbe bello non avere punti di vista. Non litigheremmo mai”. Ho pensato che volesse farsi notare, ma alla fine ho inserito la frase nel film. Metka Koshack, la costumista, mi ha mostrato un pelliccione nero lungo fino ai piedi e ho deciso di dare a Tea un ingresso speciale nella storia, il pelliccione che si muove per la cantina e noi non sappiamo cosa c’è dentro. C’è qualcuno dal look molto sofisticato che quando apre bocca ci sorprende con un meraviglioso accento catanese. I suoi capelli così biondi naturalmente mi sembrano cosi lontani da quell’accento. Una ragazza davvero speciale.

In quanto a Lorenzo, non si contano i ragazzini che abbiamo incontrato. Era molto tempo che non incontravo degli adolescenti. Quello di Lorenzo era un viso che non riuscivo a immaginare. Quando ho visto gli enormi occhi di Jacopo Olmo, quei capelli alla Robert Smith dei Cure, quel faccino che mi faceva pensare un po’ a Malcolm McDowell da giovane… ma anche misteriosamente a Pasolini. Non ho avuto dubbi.  Abbiamo cominciato a parlare ma la timidezza dei suoi 14 anni è durata ben poco. Ha cominciato ad aprirsi con me dal primo giorno di riprese. Era un quattordicenne ma anche un attore consumato, un professionista come ne ho incontrati pochi.

 

Nel film ricorrono molti temi e suggestioni che lei ha affrontato nei suoi film precedenti, dall’incesto all’adolescenza, al rapporto tra madre e figlio. Ma quello che risalta di più è il luogo chiuso, già così centrale in “Ultimo tango”, “L’assedio”, “The Dreamers”. Ma cos’è che la colpisce tanto dei luoghi chiusi?

Mi ci trovo tremendamente bene. Sono interni ma in alcuni momenti a me sembra di girare in esterno. Forse perché sentivo la cantina nella sua totalità, nella sua struttura e allo stesso tempo, il “fuori del dentro”, l’insieme ma anche la sua “sezione”.

Ho chiesto allo scenografo, Jean Rabasse, che aveva già lavorato con me in “The Dreamers”, che la cantina fosse concepita in modo da poter essere trasformata dal ragazzino. Che venisse a integrare organicamente il personaggio di Lorenzo.

 

I lettori di Ammaniti, vedendo il film, rimarranno colpiti soprattutto dal finale, che è molto diverso dal romanzo.

Ebbene sì. Con Ammaniti e gli altri sceneggiatori, abbiamo discusso il finale fino all’ultimo. Molto con mia moglie, anche lei sceneggiatrice a tarda notte, anche se nei titoli non figura. Quando lessi il libro e dissi ad Ammaniti che mi era piaciuto molto tranne il finale: la morte di Olivia mi sembrava prevedibile. Non mi piace al cinema, nei romanzi, nelle commedie che i personaggi dei tossici, alla fine, debbano per forza morire. È un destino coatto e prevedibile che io trovo anche  moralistico. Mi sembrava che il ritorno all’esterno di Lorenzo e Olivia dopo una settimana insieme sarebbe stato molto più bello lasciando aperto il futuro della ragazza. Insomma ho sospeso la sua condanna a morte.

 

Nella colonna sonora, tra la partitura originale di Franco Piersanti e la canzoni dei Cure, dei Muse e dei Red Hot Chili Peppers, fa capolino una poco conosciuta versione in italiano di “Space Oddity” di David Bowie.

Mi ricordavo questa canzone molto speciale, con David Bowie che canta in italiano cercando di contenere il suo accento inglese. Nella versione originale diceva “Ground Control to Major Tom… This is Major Tom to Ground Control ecc. ecc.”  in italiano invece dice: “Dimmi ragazzo solo dove vai, perché tanto dolore…”. Il testo italiano è di Mogol che ammiro dai tempi di Battisti, trovo che è veramente è un poeta. Mi piace sempre nei film avere una sequenza genere musical perché  nei musical scatta sempre la “suspension of disbelief “ “ la sospensione della credibilità”.

 

Parasafrando il titolo di un documentario che le dedicò tanti anni fa Paolo Brunatto, lei ha “nostalgia di un kolossal”?

Non ne ho, anche perché il kolossal l’ho già fatto, forse più di uno. In realtà, quanto Brunatto girò il documentario sulla lavorazione dell”Ultimo Imperatore”, era lui che aveva nostalgia di un kolossal! Invece “IO e TE” è un ‘minimal’. Mi è servito a capire se mi fosse possibile fare cinema da una posizione diversa da quella usuale. Da seduto piuttosto che da in piedi. Prima di girare “IO e TE” non sapevo se ci sarei riuscito. Alla fine ho scoperto che sono pronto a girarne subito un altro…

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