C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA ecco le SEQUENZE RECUPERATE PER L’ EXTENDED VERSION

 

ONCE UPON A TIME IN AMERICA SEQUENZE RECUPERATE PER L’ EXTENDED VERSION

1) SEQ. 75-76 INT-EST CAPPELLA CIMITERO Mt. 104, 8 / min. 3’ 49’’ Incontro di Noodles con la direttrice del cimitero di Riversdale (Louise Fletcher) nella cappella e apparizione inquietante della Cadillac nera nei viali del cimitero (1968) È una delle sequenze che Leone si rammarica di avere tagliato (“Cahiers” e “Cinecritica”) Grazie al recupero di questa sequenza Louise Fletcher torna nel film da cui era sparita a causa dei tagli.

2) SEQ. 95 EST. TUFFO IN ACQUA + DRAGA MAX E AMICI CERCANO NOODLES mt. 35,5 / min. 1’ 17’’ sequenza muta L’automobile guidata da Noodles, con Max e Cockeye a bordo, sprofonda nelle acque del lago. Gli uomini si dibattono divertiti fra le acque mentre una gru draga terra e detriti (1933) montata unitamente alla:

SEQ. 96 EST VILLA BAILEY, NOODLES VEDE ESPLOSIONE AUTO mt. 53 / min. 1’ 56’’ Noodles camminando davanti alla villa vede uscire l‟auto che dopo pochi metri esplode.

3) SEQ. 107 EST. TEATRO NOODLES E AUTISTA ARRIVO DEBORAH mt. 57,6 / 2’ 06’’ All’entrata del teatro, Noodles dialoga con l‟autista prima dell‟arrivo di Deborah (1933). (“Très belle scène” la definisce Leone ai “Cahiers”

4) SEQ. 111 INT. NOTTE EVE INCONTRA NOODLES mt. 66,2 / 2’ 25’’ Incontro di Eve con Noodles nel locale della 52ª, poi loro amplesso nella camera d’albergo dell’uomo (1933)

montata unitamente alla: SEQ. 112 INT. CAMERA DA LETTO EVE E NOODLES mt. 68,7 / 2’ 30’’

montata unitamente alla: SEQ. 113 INT. CAMERA DA LETTO RISVEGLIO NOODLES TROVA BIGLIETTO EVE mt. 13,6 / 30’’

montata unitamente alla: SEQ. 114 EST. STAZIONE DEBORAH PRENDE CAFFÈ E ESCE DAL BAR mt. 16,2 / 35’’

 

 

5) SEQ. 137 INT. TEATRO DEBORAH INTERPRETA CLEOPATRA mt. 62,9 / 2’ 18’’ Deborah recita la Cleopatra shakespeariana a teatro. Noodles è presente fra il pubblico (1968).

6) SEQ. 142 INT. VILLA BAILEY INCONTRO MAX E JIMMY mt. 140 / 5’ 08’’ Mentre arrivano gli ospiti, Bailey ha un colloquio nel suo studio privato con il sindacalista protagonista in passato di un “salvataggio” da parte della banda di Noodles e Max.

 

“CREDEVO FOSSE UN’AVVENTURA. INVECE ERA LA VITA” di Gian Luca Farinelli, direttore Fondazione Cineteca di Bologna

 

Tra la preparazione di C’era un volta il West (1968) e quella di Giù la testa (1971), Sergio Leone si appassionò a un romanzo di quattrocento pagine sui gangster ebrei, The Hoods (in Italia, Mano armata). Harry Gray, pseudonimo dell’autore, lui stesso un ex gangster, lo aveva scritto mentre scontava la sua pena a Sing Sing. Leone lo incontrò a fine anni Sessanta e rimase affascinato da questo ex malvivente, che rispondeva a monosillabi (“Sì, no, forse” fu tutto quello che riuscì strappargli), che non aveva nulla della gloria dei banditi raccontati da Hollywood e che condivideva con lui il medesimo immaginario, formatosi nelle sale cinematografiche. Leone capì che The Hoods gli avrebbe consentito di lavorare non più su personaggi mitici ma sul Mito stesso: sulla sua trasmissione, sui generi cinematografici e sulle loro filiazioni, sull’infanzia del Novecento, in una specie di Ricerca del tempo perduto collettiva. La costruzione di questa cattedrale (così Enrico Medioli chiamò il lavoro preparatorio) sarebbe durata a lungo. Tra Giù la testa e Once Upon a Time in America passarono undici anni. In un’intervista, scherzando sull’enorme tempo impiegato per realizzare il film, Leone avrebbe citato Joseph Conrad: “Credevo fosse un’avventura. Invece era la vita”. Secondo i suoi collaboratori, tra il 1967 e il 1977 Leone non lavorò su un copione, ma solo su infinite versioni orali. I diritti cinematografici del romanzo non erano disponibili e dopo molti e inutili tentativi sarà Alberto Grimaldi, già produttore di Leone, ma anche di Fellini, Pasolini, Bertolucci, a riuscire a ottenerli e a chiedere a Norman Mailer di scrivere una prima sceneggiatura. Leone però non trovò interessante quella prima stesura, e per scrivere si circondò di uno straordinario gruppo di sceneggiatori italiani: Kim Arcalli (geniale collaboratore di Bertolucci), Enrico Medioli (autore di sette sceneggiature per Visconti), Leo Benvenuti e Piero De Bernardi (che con Amici miei erano stati capaci di raccontare il tema dell’amicizia in maniera totalmente nuova). Al gruppo si aggiunse in un secondo momento un giovane critico, Franco Ferrini (e molto più tardi, nella fase finale di stesura dei dialoghi inglesi, Stuart Kaminsky). Medioli dirà: “Nessuno di noi sceneggiatori è americano, nessuno di noi è ebreo, nessuno di noi è gangster, tutto è filtrato attraverso il cinema, più che attraverso la letteratura”. Al centro del racconto ci sono brandelli della memoria di Noodles, velati dall’oppio, intrisi di nostalgia, sfuggenti a ogni ordine cronologico, perché Once Upon a Time in America non è un biopic: è il fluire della vita di un uomo che per trent’anni non ha fatto che pensare e ripensare alla propria esistenza, maniacalmente ripercorrendo frasi, gesti, suoni del passato. Il risultato del lungo lavoro di scrittura produce una sceneggiatura di circa cinque ore, troppo per Grimaldi, reduce dalla difficile esperienza di Novecento (che era uscito in due parti). Nel 1980 Leone incontra Arnon Milchan e la Warner e il film sembra finalmente arrivare alla svolta finale, anche perché Robert De Niro accetta di essere Noodles. De Niro offre a Leone la possibilità “di fare Pinocchio con un bambino vero”, liberandolo dal ruolo di burattinaio e consentendogli di divenire il narratore. La coppia James Woods e Robert De Niro ha aggiunto alla sceneggiatura una forza realista e autentica che il cinema di Leone non aveva ancora conosciuto. Se è Leone il cantore di questo inno al cinema, occorre ricordare che se non avesse avuto al suo fianco alcuni dei massimi artisti del cinema italiano non avrebbe potuto creare un brillante così prezioso, ricco di sfaccettature e luminoso. La colonna sonora di Ennio Morricone, in simbiosi perfetta con le immagini come nei precedenti film di Leone, per la prima volta usa alcuni brani famosi del Novecento (oltre alla Gazza ladra di Rossini) e diventa parte integrante della narrazione: sorregge gli incastri della struttura narrativa e permette di collocare temporalmente i ricordi di Noodles. Morricone l’aveva preparata già a metà anni Settanta e fu utilizzata (come si usava nel muto) durante le riprese, per ispirare la recitazione degli attori. Nove mesi di riprese a Parigi, sul lago di Como, a New York, Roma, Miami, Venezia, nel New Jersey, a Montreal. Once Upon a Time in America è uno degli ultimi colossal realizzati prima del digitale. Tutto quello che vediamo è realmente esistito davanti alla macchina da presa. Lo scenografo Carlo Simi, la costumista Gabriella Pescucci, il direttore della fotografia Tonino Delli Colli hanno compiuto il miracolo di restituire il clima visivo di tre epoche, lavorando tra Nord America ed Europa con minuziosa cura del dettaglio, con scrupolosa veridicità. A montaggio avanzato esplode il problema della durata: la prima versione dura quattro ore e venti minuti, Milchan e la Warner si aspettavano un film di non oltre 160 minuti. Ma Leone aveva in mente il suo film. Alla fine della lotta la versione americana, con le scene rimontate in senso cronologico, dura 1 ora e 34 minuti e non viene firmata da Leone; la versione europea, presentata a Cannes nel maggio del 1984, dura 3 ore e 49 minuti. Dalla versione europea vennero allora eliminate diverse sequenze che oggi, grazie alla testarda volontà della famiglia Leone, alla perseveranza della Film Foundation, al sostegno di Gucci, e all’avente diritto New Regency, abbiamo potuto ritrovare e reinserire in questa ‘ricostruzione’ di Once Upon a Time in America. Tra queste sequenze, molti passaggi che spesso Leone ricordava, con il rammarico di avervi dovuto rinunciare: come l’apparizione di Louise Fletcher, premio Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo, che interpretava la parte della direttrice del cimitero ed era scomparsa dal film, e la scena dove Deborah (Elizabeth McGovern) recita a teatro il ruolo di Cleopatra. La versione ricostruita dura ora 4 ore e 15 minuti. In Once Upon a Time in America ci sono tutti gli elementi che caratterizzano il cinema di Sergio Leone: epica, morte, amicizia, ricordi, rapine, tradimenti, un duello lungamente annunciato, una presenza ‘visiva’ della colonna sonora, l’uso stupefacente del dolly e dei movimenti di macchina. Eppure il film è molto diverso dai suoi precedenti: thriller, melodramma, citazioni dei classici del cinema gangsteristico, ma anche di Chaplin, di Welles e del neorealismo, convivono in un viaggio verso l’oblio e la morte nel quale lentamente scopriamo la disperazione di Noodles, all’interno di una grandeur cinematografica e irreale. In questa storia circolare, in cui tutto viene sempre rinviato e tutto resta immutabile, in un’America che non è più il paese dove si avverano i sogni, ma un luogo oscuro dove una parabola di potere può finire in un tritarifiuti, Noodles è un antieroe che ha l’aura del personaggio epico, un esiliato che non può più ritornare a casa, perché non c’è più casa che non sia solo un ricordo drogato. Leone mette in scena ancora una volta i miti umani, ma qui anche il miracolo e il mistero della loro esistenza, osserva gli accadimenti in una prospettiva cosmica, scruta i suoi personaggi con pietà e commozione. Il memorabile sorriso estatico di De Niro, nel finale, è un tradimento liberatorio delle convenzioni del cinema, ma è anche la logica conclusione di un film che per Leone era “una sorta di balletto di morte della nascita di una nazione… [dove] tutti i miei personaggi guardano in faccia la morte”. Sarà l’ultima inquadratura del suo cinema. Sergio Leone morirà nel 1989, mentre, a casa sua, vedeva il film di Robert Wise Non voglio morire.

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