SINOSSI
Rita è un avvocato al servizio di un grande studio, più interessato a scagionare i criminali che a consegnarli alla giustizia.
Un giorno riceve un’offerta del tutto inaspettata: aiutare un potente boss del cartello messicano della droga a ritirarsi dai suoi loschi affari e sparire per sempre.
L’uomo ha in mente di attuare il progetto su cui lavora da anni: diventare la donna che ha sempre sognato di essere.
Insoddisfatta del suo lavoro, Rita decide di accettare l’incarico, ignara del fatto che questa scelta cambierà per sempre la vita di molti.
INTERVISTA A JACQUES AUDIARD
Come è nata l’idea del film?
Sei anni fa ho letto il romanzo Écoute di Boris Razon. A metà del libro, arriva uno spacciatore transgender che vuole sottoporsi a un intervento chirurgico. Dato che nei capitoli successivi il personaggio non era molto sviluppato, ho deciso di iniziare la mia storia con lui.
Come ha lavorato alla sceneggiatura partendo da questa premessa?
Durante il primo lockdown, ho buttato giù una prima bozza e mi sono reso conto che era più simile a un libretto d’opera che a una sceneggiatura cinematografica: era suddiviso in atti, c’erano poche scenografie, i personaggi erano archetipici…
Era da tanto che voleva fare un’opera lirica?
Non era una cosa che mi interessava particolarmente, ma è anche vero che l’idea di fare un’opera mi era passata per la testa mentre lavoravo a Un héros très discret. Con Alexandre Desplat avevamo pensato di scrivere un’opera verista, una storia senza pretese come Nixon in China, L’opera da tre soldi o La tragédie de Carmen di Peter Brook.
Avendo in mente questa idea di opera, ha iniziato a cercare un musicista?
Esatto. Un mio amico produttore, anche lui appassionato di musica, mi ha parlato di Clément Ducol e così l’ho incontrato. La sua compagna Camille ha deciso subito di partecipare al progetto per scrivere i testi. A quel punto noi quattro, compreso Thomas Bidegain, ci siamo rintanati in una casa fuori Parigi per iniziare a lavorare. Era la primavera del 2020.
Quand’è che il libretto si è trasformato in sceneggiatura?
Quando ho iniziato a cambiare i personaggi del romanzo. Nel libro l’avvocato era un uomo, un tipo stanco e disincantato, uno che non ha più niente da perdere. Io l’ho trasformato in una donna, anche lei avvocato ma giovane, ambiziosa, spregiudicata, cinica e pure nera, visto che a interpretarla è Zoe Saldaña. Insomma, un personaggio con un enorme potenziale di sviluppo che, come Emilia, avrebbe potuto spaziare tra generi diversi: film noir, melodramma, commedia di maniera, musical, telenovela…
Perché ha seguito un percorso così tortuoso per arrivare a scrivere una sceneggiatura?
Non ne sono sicuro, ma devo dire che la storia è sempre la stessa: tutto parte da un’intuizione, un punto di partenza, e poi passo il resto del tempo a complicare le cose, a confondere le acque, a nascondere dietro a qualche maschera… Alla fine, cioè durante il processo di missaggio, il film è più vicino alla mia idea originale di tutte le diverse versioni intermedie. “Quanta strada ho dovuto fare per incontrarti!”, dice l’eroe alla fine di Diario di un ladro di Bresson.
La maggior parte dei suoi film parla di paternità e del fardello della violenza che ci si porta appresso. Ne è consapevole quando scrive la sceneggiatura?
Mi sento molto ingenuo e cerco sempre di fare cose diverse, ma i temi ricorrenti sono proprio la paternità e la violenza: come si fa a liberarsi della violenza dei padri? Devo ammettere che è stato così fin dall’inizio. Il mio primo lungometraggio si chiama proprio Regarde les hommes tomber [Guarda gli uomini che cadono]! Questo avrebbe dovuto attirare la mia attenzione, non crede?
Con Emilia Pérez, lei esprime il concetto in maniera un po’ diversa, affrontando il tema della mascolinità come sottoprodotto e parte integrante della violenza…
È fondamentalmente una storia di redenzione: cambiare sesso ti aiuta a vedere la violenza maschile sotto una luce diversa? Onestamente non credo. Magari il personaggio di Emilia ci crede davvero, ma resta comunque invischiato nella violenza. È il percorso che la porta ad allontanarsi da questo ciclo di violenza che è virtuoso in sé. Alla fine, che si perda la vita o si sopravviva, si è imparato qualcosa lungo la strada.
La maggior parte del film è stata girata su un palcoscenico, a Parigi. È stata una scelta creativa o è dovuto a esigenze tecniche?
Abbiamo fatto diversi sopralluoghi in Messico, ma non trovavamo la quadra: tutti i set erano troppo reali, troppo rigidi, troppo piccoli, troppo complessi … La mia idea originale era legata a un’opera lirica: perché quindi non tornare a questa premessa? Perché non tornare all’essenza, al DNA del progetto e girare su un palcoscenico? È un ottimo esempio di quello che dicevo prima sul tempo che spreco a negare la mia intuizione originale.
Come ha lavorato alle immagini del film con il direttore della fotografia Paul Guilhaume e con l’art director Virginie Montel?
Quando si gira su un soundstage, un palcoscenico, per quanto possa sembrare un luogo comune, sei davanti a una pagina bianca e bisogna creare tutto da zero: le luci, le proporzioni, i colori, la vitalità delle scene. Bisogna pensare a ciò che sarà in primo piano e a come si intende gestire la profondità di campo. Per esempio, avevo pensato che il primo terzo del film, quello incentrato sul personaggio di Manitas, si sarebbe svolto di notte o almeno “al buio”. Questo avrebbe contribuito a ridurre i costi di design e a dare alla narrazione una forte identità visiva. Con Virginie Montel abbiamo anche pensato che in alcuni momenti le comparse e la loro fisicità sarebbero servite da set. Nella sequenza di apertura del mercato, ad esempio, si assiste a una sorta di equazione tra corpi e set. Ma poi, visto che c’è sempre la possibilità che un film venga fuori statico su un palcoscenico, abbiamo sempre tenuto presente che avevamo bisogno di dinamismo, sia in primo piano che riguardo alla profondità di campo. Per quanto riguarda la questione primo piano/sfondo, ci siamo sicuramente basati su ciò che avevamo imparato da Il profeta.
In che senso?
Prima de Il profeta, se dovevo girare, ad esempio, una scena di strada, mettevo gli attori in primo piano, sistemavo la loro performance e poi preparavo ciò che sarebbe avvenuto sullo sfondo: passanti, automobili… ma nel Profeta questo approccio non funzionava per niente: se mi occupavo del primo piano (i personaggi principali) e solo dopo mi concentravo sullo sfondo (le comparse), quest’ultimo risultava privo di vita. È stato allora che ho capito che dovevo gestire prima lo sfondo, le comparse (cioè la prigione) e, quando tutto cominciava a funzionare, inserire gli attori – in altre parole, portarli in una vita esistente.
Ambientare il film in Messico ha significato lavorare fin dall’inizio, ancora una volta, in una lingua diversa. Dopo Dheepan (2015), il cui protagonista parlava tamil, e I fratelli Sisters (2018), interamente girato in inglese, perché ha voluto lavorare di nuovo in una lingua straniera?
In francese tendo a concentrarmi sulla sintassi, sulla scelta delle parole, sulla punteggiatura… Tutti dettagli che non sono molto utili. Invece, quando lavoro in una lingua che parlo poco e male, il mio rapporto con i dialoghi del film diventa esclusivamente musicale.
La traduzione ha cambiato la musicalità del dialogo che aveva scritto in francese?
Sì, certo, ed era proprio questo il punto: scrivere un’opera in spagnolo, che è una lingua che ha un carattere forte, molto fisica, molto accentata.
Emilia Pérez è il suo decimo film. Cosa ha imparato dal suo primo film come regista nel 1993?
In realtà è con i miei primi tre film che ho imparato alcune cose specifiche. Da allora, utilizzo e applico tutto ciò che ho imparato ma continuo a scoprire cose nuove. Con l’esperienza riesci a gestire gli attori portandoli a un livello diverso, riesci a girare più facilmente il tipo di immagini che hai in mente, a esprimere meglio sul set cosa ti aspetti spiegandolo alle persone che devono saperlo – in altre parole, con la troupe. E man mano che acquisto sicurezza, mi prendo più libertà. So dove sto andando, ma senza esagerare.
Ha potuto provare con le attrici protagoniste prima delle riprese?
Di solito le prove sono sempre un po’ un lusso che uno tende a imporre, ma in questo caso, visto che c’erano le coreografie, le performance canore e i numeri comici, erano indispensabili. Damien Jalet ha ideato la coreografia e si è occupato delle prove. Clément Ducol e Camille hanno scritto le musiche e i testi, hanno registrato le tracce iniziali e le hanno portate alle attrici… Ogni giorno avevamo tre o quattro cose diverse da fare. È stato estenuante, ma anche esaltante.
Ci parli del processo di selezione del cast.
Ho incontrato Selena Gomez una mattina a New York. Me la ricordavo in Spring Breakers – Una vacanza da sballo (2013) di Harmony Korine, ma non sapevo quasi nulla di lei. In dieci minuti ho capito che sarebbe stata perfetta. Gliel’ho detto, ma non mi ha creduto. Quando l’abbiamo chiamata un anno dopo per dirle che avevamo avuto l’ok per il film, pensava che mi fossi dimenticato di lei!
E Zoe Saldaña?
Zoe aveva tutte le carte in regola: sapeva cantare e ballare come richiedeva il ruolo da protagonista e poi come attrice è straordinariamente carismatica. Ci teneva molto a fare il film, ma era impegnata. L’abbiamo aspettata per un anno.
E Karla Sofía?
Trovare qualcuno per il suo ruolo è stato più difficile. Ho incontrato diverse attrici transgender a Città del Messico, ma non riuscivo a trovare la persona giusta. Il problema, secondo me, è che la transizione rappresenta un momento talmente importante della loro vita che diventa prioritario e, anche se capisco bene che si tratta di qualcosa di straordinario, non deve diventare il fulcro della storia. Karla Sofía era un attore prima di diventare un’attrice e c’è una coerenza nel suo percorso che ha risolto il problema. È intelligente, ha una mente acuta, è piena di inventiva e ha un grande senso della commedia.
Come ha gestito la barriera linguistica con gli attori?
Quando diventava troppo difficile, ricorrevo a un traduttore. Ma con gli attori e le attrici la comunicazione è come un esperanto. Sono stati tutti fantastici e mi è piaciuto molto lavorare con loro giorno dopo giorno.
Come ha costruito il personaggio di Manitas con i diversi reparti?
Ne ho parlato a lungo con Virginie Montel. Per questo personaggio la questione era come costruire Emilia a partire da Manitas e fino a dove spingerci. Virginie ha fatto un bel po’ di prove con il suo team (truccatori, artisti VFX, costumista) finché non è arrivata a individuare questo look di un bruto tenero con una voce d’angelo. E io stesso ho finito per farmi trasportare: quando ho visto le prime immagini di Manitas, quasi non riconoscevo Karla Sofía.
Quanta ricerca ha fatto sull’identità transgender in fase di pre-produzione?
Non avevo alcuna conoscenza teorica della questione transgender. È stata Karla Sofía a istruirmi sull’argomento. Le facevo domande via e-mail e lei mi rispondeva. Ciò che più mi ha colpito sono la determinazione e il coraggio, sia mentale che fisico. Quanto coraggio ci vuole per farsi operare e quanto dolore ha dovuto sopportare prima dell’intervento! Ha trascorso un’intera vita intrappolata in un corpo che non le apparteneva.
E poi c’è un’altra cosa da dire su Karla: ancora oggi vive con la madre di sua figlia che adesso deve avere circa 15 anni. Non so se si possa affermare che questo è un esempio di libertà, ma secondo me è così.