CINEMA: THE STORY OF FILM USCIRA’ IL 25 SETTEMBRE
Prodotto da Hopscotch Films e scritto e diretto da Mark Cousins, The Story of Film è la storia in 15 episodi del cinema internazionale raccontata attraverso le varie tappe dell’innovazione cinematografica.
Frutto di cinque anni di lavoro, The Story of Film abbraccia 6 continenti e 12 decenni. Tratto dal libro omonimo di Cousins, illustra come i cineasti siano influenzati sia dagli eventi storici del loro tempo sia gli uni dagli altri. Il film visita i luoghi chiave della storia del cinema – da Hollywood a Mumbai, dalla Londra di Hitchcock al villaggio indiano in cui fu girato Pather Panchali di Satyajit Ray – e propone interviste con registi e attori leggendari tra cui Stanley Donen, Kyoko Kagawa, Gus van Sant, Lars Von Trier, Claire Denis, Bernardo Bertolucci, Robert Towne, Jane Campion e Claudia Cardinale.
Dice Mark Cousins:
“Il cinema è sempre stato la mia vita. Ha reso migliore la mia vita. Vorrei potermi sdebitare in qualche modo. Quando ero un bambinetto impaurito, nella Belfast in guerra degli anni settanta, il cinema era il mio rifugio. Mi calmava, mi portava in posti lontani, mi mostrava la rabbia e la virtù. Mi faceva cantare e ballare dentro. Mi entusiasmava con la forma. Mi faceva sentire vivo in un momento e in un luogo in cui di queste cose non c’era quasi traccia. Gli sarò sempre grato per questo, e in segno di riconoscenza ho cercato di realizzare il primo documentario che racconta la storia dell’innovazione nel cinema”.
Nel 2010 More4 ha anche prodotto un altro documentario di Cousins, The First Movie, accolto con grande favore dalla critica internazionale.
The Story of Film è stato presentato in prima assoluta al Toronto Film Festival prima di essere trasmesso su More4.
The Story of Film: An Odyssey
di Mark Cousins
Nel 2001 ho scritto un articolo per l’edizione domenicale del giornale inglese The Independent, in cui sostenevo che qualcuno avrebbe dovuto scrivere una storia del cinema come quella di Gombrich per l’arte: un libro senza troppi tecnicismi, destinato al grande pubblico e soprattutto ai giovani, e incentrato sull’innovazione. Poi, sono partito dalla Scozia alla guida del mio caravan, e sono arrivato fino in India. Durante il viaggio, c’è stato l’11 settembre, ho trascorso un periodo in Iran e in Kurdistan, e la mia vita si è spostata a oriente.
Quando sono tornato – magro, biondo, cambiato per sempre – ho trovato una lettera ad aspettarmi: mi chiedeva di scrivere il libro che avevo proposto. E così ho fatto. Ci ho messo undici mesi. Mi sono chiuso in camera e mi sono messo a scrivere. Mi sono anche fatto crescere le basette. Il libro The Story of Film è stato pubblicato (cosa che ha sorpreso anche me) e poi è stato tradotto. L’ho visto nelle librerie di Pechino, Città del Messico, Los Angeles e Tokyo, e mi sono fatto degli autoscatti di me accanto all’edizione tradotta. Il libro se ne andava a zonzo per il mondo.
Poi, nel 2005 il mio produttore, John Archer, mi ha proposto di girare un documentario tratto dal libro. Io l’ho preso per matto: un film del genere doveva durare minimo tre ore! Ancora non sapevo niente…
Il programma europeo MEDIA Mundus e Scottish Screen ci hanno dato un po’ di soldi per sviluppare il progetto. Con quei soldi, siamo andati al Cairo, dove abbiamo fatto le riprese da soli, riducendo i costi all’osso. Poi, lo UK Film Council ci ha dato un altro po’ di soldi e abbiamo fatto altre riprese, sempre allo stesso modo, in Giappone, India, Cina e Hong Kong. Dopodiché, il canale televisivo inglese More4 ci ha dato un finanziamento ancora più sostanzioso e all’improvviso quello che era solo un progetto di film ha cominciato a concretizzarsi: eravamo entrati in lavorazione. Stavamo girando una storia del cinema.
Il film andava prendendo forma e sapevo già quello che sarebbe diventato: un documentario appassionato, alimentato dalla passione per i viaggi. Non inserivo fotografie o grafici, e neanche molte interviste. Giravo all’alba e al crepuscolo, utilizzando parecchio la voce fuori campo, per creare un po’ un effetto lampada magica. Eravamo attirati dai luoghi in cui erano stati girati i grandi film: Kolkata in India, per il regista Satyajit Ray; gli stabilimenti Toho a Tokyo, dove girava Kurosawa; l’Accademia del Cinema di Pechino, per i grandi film degli anni ottanta; i vecchi studios di Los Angeles; il canale di Parigi che fece da sfondo a tanti bei film realisti e poetici degli anni trenta.
Ben presto ci siamo resi conto che il film sarebbe stato ben più lungo di tre ore. Sei ore sembrava una durata più verosimile, che poi sono diventate otto, dodici e infine quindici. E abbiamo affrettato il passo, mettendoci a correre da una città all’altra, da un paesaggio all’altro. Via via che la portata del progetto aumentava, anche la vita sembrava allungarsi da 25 inquadrature al secondo, prima a 50 e poi a 100.
The Story of Film contiene circa mille spezzoni di film. Per sceglierli abbiamo dovuto guardare ognuno dei film da cui sono tratti, filmare un luogo o una persona per spiegare la rilevanza di quella scena, e poi scrivere la sceneggiatura in modo da inserire ogni clip in un contesto. Dopodiché abbiamo montato e rimontato tutto, trovato il formato giusto, realizzato i sottotitoli, registrato la voce fuori campo e missato il sonoro.
A occhio e croce, fanno 20 ore di lavoro per ogni clip, cioè 20.000 solo per editarle tutte. Cioè, 375 settimane – o più di sette anni di lavoro.
Intanto, cominciavo a notare anche altre cose: per esempio, i miei capelli stavano diventando grigi. Siccome giravo il mondo, anziché starmene seduto a scrivere in camera mia, all’inizio girare il film mi era sembrata un’impresa molto più ardua del libro. Per esempio, abbiamo girato con una minigru per riprendere la scritta di Hollywood al tramonto e la Grande Muraglia in Cina. E invece di scrivere di come Stanley Donen aveva diretto Cantando sotto la pioggia e Bernardo Bertolucci la sua doppietta del 1970, Il conformista e La strategia del ragno, sono andato direttamente a parlare con Donen e Bertolucci. Tutto questo è ben più faticoso che scrivere.
Eppure, in un certo senso, girare The Story of Film in 6 anni e attraversando 4 continenti mi è sembrato un lavoro più leggero. O forse dovrei dire un lavoro più intimo e personale.
Parlare con Baz Luhrmann della scena dell’acquario in Romeo + Giulietta di William Shakespeare, e poi montare la sua voce sulla sequenza dell’acquario è qualcosa di molto più intimo e vicino al film, che non limitarsi a scrivere di quella scena. Ho avuto quasi l’impressione di “toccare” quei film.
E che altro è emerso mentre giravamo e montavamo il film? Ho cominciato ad accorgermi che il cinema è un mezzo che esalta l’esuberanza e la tristezza (o forse ero io, più semplicemente, che mi sentivo esuberante e triste?). E mi sono accorto che ovunque andassi nel mondo – Los Angeles, Parigi, Mosca, Dakar, Edinburgo, Senegal, Teheran, Londra, Tokyo – ci trovavo il cinema, ad accogliermi con la sua magia.
The Story of Film è stato un’odissea, per me. Avevo una trentina d’anni quando ho cominciato a lavorarci, e oggi ne ho 46. Mi ha portato in Burkina Faso e sulla tomba di Yasujiro Ozu, o per le strade di Kolkata all’alba. Non dimenticherò mai la lingua tagliente di Stanley Donen e la bellezza di Sharmila Tagore; Jane Campion che racconta la scena dell’attacco di panico in Un angelo alla mia tavola; e il grande regista Youssef Chahine che, al Cairo, preannuncia la caduta di Mubarak con cinque anni di anticipo.
Ma c’è una cosa che più di altre riassume il senso di questa odissea: siamo stati nell’appartamento di Ėjzenštejn a Mosca e abbiamo parlato con l’autorevole custode della sua memoria, Naum Kleiman. Davanti a un vassoio di tè e biscotti, ho chiesto a Kleiman di spiegarmi qualcosa che non avevo mai capito bene, il concetto di “natura non indifferente” di Ėjzenštejn. Kleiman mi ha parlato di una poesia di Puškin, che racconta la sepoltura di un bambino a cui la natura resta indifferente. Ėjzenštejn riprese questa poesia e, osando andare contro una figura leggendaria come Puškin, sostenne che la natura “non è indifferente” quando un cineasta la riprende: la macchina da presa coglie quello che il regista prova per ciò che ha di fronte. L’inquadratura è un tramite, riflette quello che il regista è, la sua curiosità, le sue emozioni.
Noi speriamo che The Story of Film rappresenti tutto questo; che possiate vederci stampate le nostre impronte; che sia all’altezza del soggetto che tratta. Insomma, che sia “non indifferente”.
Realizzare un’epopea
di John Archer
Genesi e ricerca dei fondi
Quando mi trasferii in Scozia, 22 anni fa, il produttore e mio amico Stephen Garrett mi disse che dovevo assolutamente incontrare Mark Cousins, un regista giovane e brillante che mi sarebbe senz’altro piaciuto. Così, conobbi questo folletto nord-irlandese vivace, sensibile e intelligente, che divenne subito un mio amico e collega. In seguito, Mark è stato il fantasioso direttore dell’Edinburgh International Film Festival, e io ho fondato l’ente scozzese per il cinema Scottish Screen. A quel punto, abbiamo cominciato davvero a lavorare insieme al progetto Cinema Iran: un documentario e una stagione di film iraniani per Channel 4. Mark aveva appena finito di scrivere The Story of Film, un libro appassionato, intelligente e illuminante, che è una vera e propria lettera d’amore al cinema. “Dovremmo farne un documentario”, ho detto io. “E’ impossibile”, ha risposto Mark. “Un ottimo motivo per farlo”. E oggi, sei anni dopo, eccoci qua.
Per prima cosa ci siamo rivolti a MEDIA 2 che con i suoi fondi ha consentito a Mark di cominciare a scrivere la sceneggiatura, e a noi due di girare un promo. Abbiamo scelto l’Egitto per intervistare Youssef Chahine, il padre del cinema africano. Con l’aiuto di Rose Issa, un’eclettica operatrice culturale che aveva già lavorato con noi in Iran, abbiamo convinto tutti quanti i registi a farsi intervistare, con un misto infallibile di simpatia e determinazione a cui neppure Abbas Kiarostami ha saputo resistere. Ci siamo portati dietro la nuovissima cinepresa Sony Z1 per le riprese, e abbiamo assunto un operatore locale per fare qualche ripresa in più oltre alle nostre. Il segmento montato era un ottimo biglietto da visita. Il nostro sogno era realizzare tre documentari di 90 minuti ciascuno, per tre sostanziosi sabato sera su BBC2 o Channel 4, e per i festival. Il marito di Jan Young a Channel 4 è stato molto incoraggiante, e Peter Dale di More4 si è dichiarato addirittura entusiasta. La BBC sembrava interessata, ma poi ci è giunta voce che il nostro progetto era stato giudicato “Troppo impegnativo”, cosa che mi ha riempito di tristezza.
Nel 2008, Scottish Screen ci ha dato dei fondi per realizzare un episodio pilota e andare a Shanghai e a Pechino, dove avremmo girato materiale sufficiente a convincere Lizzie Francke e lo UK Film Council a finanziare il resto del documentario. Ormai eravamo abituati a farci le riprese da soli, e viaggiare con la nostra attrezzatura in spalla ci sembrava l’unico modo possibile per lavorare. Grazie all’immensa rete di conoscenze di Mark, in ogni parte del mondo – India, Hong Kong, Giappone o Australia – c’era qualcuno che poteva aiutarci a organizzare le riprese. Così, siamo partiti per una spedizione di un mese fatta di voli a basso costo e alberghi a una stella. Eravamo certi che avremmo ottenuto i soldi necessari per finire le sei ore di documentario della nostra ultima stima. Ma Jan ha lasciato Channel 4.
A quel punto abbiamo conosciuto Tabitha Jackson di More4, che nel 2010 ha prodotto il film The first movie, con cui Mark ha rivelato le sue doti registiche.Tabitha si è subito dichiarata entusiasta del progetto, e ci ha promesso altri soldi. Non aspettavamo altro, per rimetterci al lavoro. E’ subentrato anche Stuart Cosgrove, e ci siamo impegnati a fare tutte le riprese importanti a Los Angeles e a curare la parte amministrativa e il montaggio del film nei successivi 12 mesi. Appena abbiamo cominciato a montare le varie sequenze, le abbiamo mostrate a Lizzie Francke e alla fine il British Film Insititute ha deciso di sovvenzionare il resto del film, che a questo punto era già di 12 ore. Procedendo col montaggio, Mark si è reso conto che aveva bisogno di 15 ore per raccontare tutta la storia e rendere giustizia al materiale girato. Tabitha ne ha preso atto e ha coinvolto Film4, facendo quadrare i conti e allargando i nostri orizzonti.
Le difficoltà pratiche
Negli anni novanta Mark aveva realizzato per la BBC una brillante serie di interviste intitolata Scene by Scene. In quella occasione aveva incontrato tanti registi e imparato a riconoscere i veri cinefili, quelli capaci di vedere il cinema in una prospettiva più ampia, che andasse oltre il proprio lavoro. Erano loro che volevamo. E a quel punto, di conoscenze Mark ne aveva parecchie. Anche per questo, The Story of Film è arrivato al momento giusto e prima, forse, non sarebbe stato possibile.
Oggi Mark ha una padronanza del mezzo cinematografico che prima non aveva: crea immagini di una straordinaria qualità pittorica, e inquadrature sempre inaspettate e impeccabili. Conosce il cinema come pochi. Ha la fortuna di avere un gran cervello e un’ottima memoria: quando giravamo in esterni, individuava subito l’inquadratura che corrispondeva esattamente alla scena di un film, quella che evocava un’atmosfera e lo stile del regista. In più, sa sempre quello che vuole e non ha mai fatto perdere tempo a nessuno: quando chiedevamo a un regista “solo 20 minuti del suo tempo”, mantenevamo sempre la promessa. Anche se a volte, per me che ero il produttore, poteva essere stressante. Alla fine del mese di interviste, siamo arrivati nello studio di Jane Campion a Sydney, abbiamo montato l’attrezzatura e girato 20 minuti di intervista. “Basta così”, ha detto Mark. Dopodiché siamo rimasti lì a chiacchierare con lei altri 40 minuti. Io avrei preferito girare altro materiale perché non mi sentivo tranquillo, ma quando siamo arrivati in sala di montaggio avevamo esattamente quello che ci serviva.
Gli intervistati sono sempre rimasti molto colpiti dalla conoscenza che Mark ha del loro lavoro, da come è in grado di discuterne in dettaglio riuscendo addirittura a inserirlo in un contesto più ampio. Per fortuna, le attuali leggi sul copyright non hanno intralciato il nostro lavoro per quanto riguarda la riproposizione e il commento degli spezzoni dei film. Il problema, se mai, è stato trovare copie decenti dei film meno conosciuti, in DVD. La nostra rete di direttori di produzione sparsi in tutto il mondo ci ha dato una grossa mano. Uno di loro ci ha addirittura recuperato una videocassetta di un raro film indiano, di qualità infinitamente superiore a quella del DVD che avevamo visto.
Abbiamo montato il film nell’appartamento di Mark a Edinburgo, finendo appena in tempo per l’anteprima al Telluride e la proiezione ufficiale al Toronto Film Festival. Mark non immaginava certo che l’odissea fosse appena cominciata, e che saremmo stati invitati a partecipare ai festival di tutto il mondo.
The Story of Film – I viaggi del prode Ulisse
di Ian Christie, SIGHT & SOUND
La parola “cinefilia” mi ha sempre fatto pensare a una malattia. Il tipo di cosa che ti prendi guardando troppi film di Mitchell Leisen, o magari tutta la nuova leggendaria serie televisiva di Mark Cousins The Story of Film: 15 ore che raccontano oltre un secolo di cinema attraversando quattro continenti. Un’impresa estremamente personale, quasi ossessiva. Cousins la definisce “un’odissea”, ed è così che deve essergli sembrata la lavorazione durata anni e con un budget ristrettissimo, nonostante il meritorio contributo di Channel 4 e dello scomparso UK Film Council.
Ora, dopo la prima al Toronto Film Festival, il film è pronto per essere proiettato nelle sale e trasmesso a puntate alla televisione, su More4. E l’epidemia di cinefilia non si fermerà certamente qui.
In realtà, i primi a vedere alcuni spezzoni del film sono stati i gestori di cinema e i responsabili della programmazione televisiva di quindici paesi, riuniti a Bologna per il laboratorio di Europa Cinemas (il prestigioso circuito dellesale di qualità europee) che si è tenuto l’anno scorso a Bologna, nell’ambito del festival “Il cinema ritrovato”. Sembrava il pubblico ideale. La nostra missione era di aiutare le sale cinematografiche a re-inventare l’esperienza del cinema, per fare fronte alla concorrenza delle nuove piattaforme e della presunta mancanza di interesse per “i vecchi film”. L’ambizione di Cousins è quella di riaccendere l’entusiasmo per una visione globale del cinema, attingendo alle sue esperienze televisive, al suo lavoro di direttore dell’Edinburgh Film Festival e al suo recente impegno con la 8½ Foundation, lanciata con Tilda Swinton dopo il festival Ballerina Ballroom Cinema of Dreams. Così gli abbiamo chiesto se avrebbe accettato di presentare una piccola parte di The Story of Film a persone disperatamente in cerca di ispirazione. Essendo impegnato nel lavoro di post-produzione, Mark non poteva essere fisicamente presente all’evento, ma avevamo alcuni spezzoni in DVD da presentare al pubblico prima di una teleconferenza stampa via Skype.
Così, una mattina ci siamo riuniti per vedere il materiale filmato a cui era stato dato il titolo poco incoraggiante di “Ore 8 e 9”.
Una sequenza di paesaggi urbani ci trasporta dalla Parigi dei giorni nostri al tempo della Guerra fredda, catapultandoci nel cinema di Andrzej Wajda e Roman Polanski, due nuove voci della Polonia del dopoguerra. Cousins apre con una scena ambientata in una chiesa distrutta, tratta da Cenere e diamanti di Wajda,in cui Zbigniew Cybulski cita una poesia di Ewa Krzyzewska, mentre la sua voce fuori campo osserva che questo James Dean polacco indossa occhiali neri “non perché sia di moda ma perché è un combattente che ha vissuto a lungo nelle fogne durante la rivolta di Varsavia”. Poi stacca sulla virile scazzottata di Due uomini e un armadio di Polanski e sul raffinato gioco psicologico tra il marito e lo studente autostoppista nel suo film d’esordio, Il coltello nell’acqua. Il primo, un film intriso di simbolismo – vedi il crocifisso capovolto a rappresentare “un mondo alla rovescia” – e gli altri due apparentemente modernisti e non-ideologici.
Nel giro di pochi minuti, siamo dentro a Per favore non mordermi sul collo di Polanski, definito “uno dei suoi film migliori… una stupenda panoramica dell’Europa centrale ebraica”, e paragonato a un quadro di Chagall. Poi passiamo al surreale film di pupazzi animati La mano, di Jiří Trnka, accostato alla satira più leggera di Al fuoco, pompieri! di Miloš Forman. Dopo un’ora e un fuoco di fila di passaggi spesso geniali e a volte provocatori, abbiamo lasciato a malincuore la visione del film, con il regista indiano Mani Kaul che ci spiegava come la filosofia indù aveva influenzato il suo stile. E quando un mese dopo è arrivata la triste notizia della sua morte, sono sicuro che molti di quelli che erano presenti a Bologna avranno ricordato la sua grande vitalità sullo schermo.
Senza ombra di dubbio, il film ha catturato l’attenzione di noi addetti ai lavori arrivati a Bologna da tre continenti. Abbiamo apprezzato la scelta caleidoscopica degli spezzoni di film e la concisione dei commenti, ricavati dalla serie di interviste realizzate da Cousins per la televisione negli anni novanta, Scene by Scene. Soprattutto, abbiamo ammirato l’entusiasmo per un cinema davvero internazionale, che è quello che la maggior parte dei membri di Europa Cinemas cercano di offrire nelle loro sale. E la sperimentazione radicale dei cineasti degli anni sessanta, come e soprattutto nei brani tratti dai film Le margheritine di Věra Chytilová e Soy Cuba di Michail Kalatozov, ha lasciato tutti di stucco. Chissà, abbiamo pensato in uno slancio utopico, questo forse risveglierà la curiosità della generazione per cui Guerre stellari è già preistoria.
Per molti versi, quello di Cousins potrebbe essere considerato un progetto radicalmente all’antica: un ritorno alla narrazione sinottica delle prime storie del cinema, da Million and One Nights di Terry Ramsaye (1926) a World Cinema (1973) di David Robinson e A History of the Cinema (1976) di Eric Rhodes. (Poi arriverà l’era delle enciclopedie, e infine quella delle risorse online.) E in un certo senso rappresenta anche un ritorno a qualcosa che un tempo la televisione faceva egregiamente bene: la grande storia. Basti pensare a Civilisation, la serie di documentari su arte e filosofia realizzata da Kenneth Clark per BBC; e Hollywood, la storia del cinema muto realizzata da Kevin Brownlow per Thames Television.
Il copione è lo stesso del libro di Cousins del 2004, The Story of Film, scritto in un linguaggio non accademico e destinato ai giovani appassionati di cinema (com’era anche lui un tempo). Nonostante rimandi i suoi lettori anche testi più “seri”, secondo Cousins sarebbero stati proprio gli studiosi di cinema, con il loro approccio specialistico e inaccessibile, ad allontanare il pubblico e a restringere i suoi orizzonti. Per prendere sul serio il cinema di Hollywood, hanno dedicato una quantità enorme di tempo ai dettagli più insignificanti della sua produzione e a distinguere tra i suoi moltissimi cineasti di talento. Il risultato – anche se certamente involontario – è stato quello di relegare gran parte della produzione cinematografica mondiale a un ruolo secondario, o semplicemente di ignorarla. Rispetto alla fame di scoperta degli anni sessanta, quando i nuovi autori e le cinematografie di tutto il mondo erano seguiti con passione proprio da quelli che poi sono diventati i primi “esperti” e studiosi di cinema, oggi l’interesse è in calo e troppo incentrato sul cinema europeo e americano.
Cousins è un appassionato sostenitore del “cinema mondiale”, non come compartimento a parte riservato ai paesi non-occidentali, sul modello della world music, ma come principio generale. Il cinema è sempre stato globale: i suoi primi prodotti venivano rapidamente trasportati in tutto il mondo per essere mostrati lontano dal loro luogo di origine, come una sorta di esperanto visuale. Attraverso il cinema possiamo ancora entrare in contatto con altre parti del mondo meglio che con qualsiasi altro mezzo. E nella sua odissea Cousins vuole portarci in quanti più posti è possibile, per farci vedere un mondo di diversità tenuto insieme dalla circolazione dei film. Gli spezzoni di film si alternano a immagini girate nelle città e negli studios di tutto il mondo e alle interviste con registi e critici, che contribuiscono a rendere l’atmosfera e l’identità locali.
Devo confessare che lo trovo un approccio estremamente efficace. Oltre ad attraversare il tempo e lo spazio, il cinema porta anche un’impronta del suo punto di origine, che sia uno studio o un ambiente naturale: cioè quello che, in letteratura, Michail Bachtin chiamava un “cronotopo”. Ed è questa specificità che Cousins cerca costantemente e spesso riesce a cogliere. Visita tombe – quelle di Ėjzenštejn e di Dovženko, e quella di Ozu vicino a Tokyo – e riflette sull’eredità che queste figure ci hanno lasciato. Guarda stanze e studi vuoti, e riflette sulle persone che ci hanno lavorato. Sì, The Story of Film è spudoratamente dedicato ai “grandi cineasti” e all’arte del cinema. Il che ci riporta al tema iniziale della cinefilia.
Oggi per cinefilia non si intende tanto una fame indiscriminata di cinema, ma piuttosto un gusto per il trascurato e l’inedito; un ritorno all’esplorazione entusiastica che rendeva la ricerca un campo nuovo e appassionante, prima che diventasse accademia. Di sicuro non è mai del tutto scomparsa in Francia dove l’attuale direttore del Festival di Cannes, Thierry Fremaux, confessa allegramente di aver “contratto il virus” da giovane, nei sobborghi di Lione. Tra i principali esponenti di questa nuova cinefilia ci sono i critici Jonathan Rosenbaum e Adrian Danks. Un altro critico americano, Dave Kehr, intitola il suo sito web “Reports from the lost continent of cinephilia” (Cronache dal continente perduto della cinefilia) e recentemente ha introdotto una nuova rubrica sulla rivista Film Comment con una battuta graffiante sui “soliti dieci autori” di cui si occupano gli studiosi da una quarantina d’anni a questa parte. Per Kehr, “Il cinema di Hollywood – come quello italiano, francese, inglese, giapponese e così via – è ben più ricco di quanto pensiamo, e c’è ancora molto da scoprire”.
Mi sembra che Cousins sia d’accordo con lui. Ma deve anche realizzare una serie tv che funzioni, all’interno di una cultura profondamente non-cinefila. Deve partire dalle origini e fornire una “storia” plausibile, cosa che inevitabilmente porta a semplificazioni e omissioni che qua e là faranno storcere il naso agli esperti. D’altro canto, chi conosce il cinema delle origini non può non osservare che Cousins ha completamente ignorato il ruolo pionieristico di Robert Paul nel cinema britannico, e direi mondiale, dando risalto invece al regista della scuola di Brighton George A. Smith e a Edwin Porter. E mentre fa un’analisi approfondita del film di Porter Life of an American Fireman del 1903, non cita l’“originale” di quel film, Fire! di James Williamson, di soli due anni prima. Certo non è possibile nominare tutti, ma è un peccato che Cousins non dia il giusto spazio alle innovazioni che segnarono i primi dieci anni del cinema inglese.
A fronte di queste omissioni, però, c’è moltissimo da ammirare e applaudire. Riprendendo una delle trovate iniziali del suo libro, Cousins accosta tre straordinarie inquadrature di bibite spumeggianti, riprese dall’alto: un bicchiere di birra nel film Fuggiasco di Carol Reed, la tazza di caffè in Due o tre cose che so di lei di Godard e l’Alka-Selzer che si scioglie nel bicchiere di De Niro in Taxi Driver di Scorsese. Osservando che gli ultimi due registi conoscevano le inquadrature precedenti, Cousins ci offre un ottimo argomento a sostegno della sua tesi secondo cui il cinema è una letteratura di riferimenti incrociati e allusioni in continua evoluzione. La famosa gag visuale di Io… e il ciclone, in cui Buster Keaton si salva dal crollo di una facciata della casa grazie a una finestrella piazzata in un punto strategico, è brillantemente associata alla stessa scena riproposta dal regista inglese Steve McQueen in un corto del 1997, Deadpan, e ai sublimi tributi a Keaton di Elia Suleiman nella Palestina contemporanea. Più avanti, c’è un inaspettato accostamento fra una bellissima sequenza del regista Yasujiro Ozu, audacemente proclamato da Cousins “miglior regista di tutti i tempi”, e un’inquadratura del film Jeanne Dielman di Chantal Akerman, in cui la macchina da presa è piazzata in modo molto simile. Questi riferimenti inusuali e imprevisti funzionano in due modi: il gusto per le allusioni che vanno oltre le convenzioni accademiche riflette la cultura cinefila dei registi a partire da Godard in poi, ma qui serve anche a mettere in discussione la “grammatica del cinema” di quei testi antiquati che consideravano il montaggio degli anni trenta e quaranta come qualcosa di definitivo.
Quella che l’odissea di Cousins vuole portare all’attenzione del pubblico è una gamma molto più ampia di linguaggi cinematografici, da tutto il mondo. Ma anche Hollywood esiste e non può essere ignorata, anche se l’atteggiamento di Cousins resta ambivalente: “Il motore del cinema non sono i soldi”, dichiara all’inizio del film, “perché i signori dei soldi non conoscono i segreti del cuore umano”.
Per affrontare il grande capitolo hollywoodiano, Cousins adotta strategie diverse. Fedele alla sua etica dell’odissea, riprende Los Angeles dall’alto, dalla scritta “Hollywood”, mostrando come oggi quella stessa scritta sia visibile in controcampo dal centro commerciale che comprende una ricostruzione degli elefanti babilonesi del film di Griffith Intolerance. Un po’ nello stile di Hans-Jurgen Syberberg, filma un primissimo piano di una decorazione natalizia e paragona Hollywood a una “pallina di Natale” che ha sedotto generazioni di persone attratte dalle sue risorse. La storica del cinema Cari Beauchamp ricorda quanto siano state fondamentali le donne per il successo della Hollywood delle origini, prima di essere ridotte a semplici oggetti decorativi. E Cousins sostiene – in modo convincente, mi pare – che quello che è diventato noto come il cinema “classico” di Hollywood dovrebbe essere considerato più propriamente “romantico”. Ma il problema dell’egemonia e della vocazione commerciale di Hollywood, nonostante la sua capacità intermittente di coltivare l’innovazione che è il tema centrale del film, resta essenzialmente irrisolto.
Avendo visto solo metà di The Story of Film, in una versione semi-definitiva, mi è impossibile giudicare in quale misura Cousins sia riuscito nel suo ambizioso intento. Ma la sua odissea può soddisfare il bisogno di una narrazione unitaria che i blog cinefili non sono in grado di offrire. Su quelli di noi che ricordano la cinefilia prima che avesse un nome e l’epoca in cui la televisione prendeva il cinema sul serio, questo film esercita certamente un grosso fascino, e dovrebbe come minimo stimolare una nuova ondata di noleggi e download di film. Ha già fatto da traino a una stagione parallela di film internazionali su More4, e forse contribuirà all’attuale boom di circoli del cinema e sale di quartiere che offrono quello che le multisale non possono offrire: il senso di avventura e di scoperta del cinema. Avanti allora, Cousins, verso quell’alba dalle rosee dita!