Da giovedì 14/11 “Non sono quello che sono”

 

 

INTERVISTA A EDOARDO LEO

 

Come è nata l’idea di dirigere e interpretare questo film?

Diversi anni fa rimasi colpito dal titolo di un quotidiano che nel descrivere un fatto di cronaca di un uomo che per gelosia aveva ucciso una donna e dopo si era suicidato, aveva raccontato la trama di “Otello”, una delle opere teatrali più celebri al mondo. Ho cominciato così a cercare di capire come avrei potuto lavorare su questa tragedia da me amatissima, una storia senza tempo in cui il bene e i male si mescolano e si confondono tra inganni, tradimenti e folle gelosia. Mentre la studiavo mi rendevo sempre più conto di come fosse attuale e del motivo per cui sia considerata un classico: un testo scritto nel 1604 è in grado di leggere ancora oggi in maniera lucida e spietata le dinamiche psicologiche che portano un uomo a cadere nel vortice della gelosia tossica. Si trattava di un’opera che non aveva bisogno di essere rielaborata ma soltanto riletta così come è stata scritta e da questa intuizione ho iniziato a pensare a un adattamento contemporaneo che fosse il più possibile rispettoso dell’originale. Dopo aver confrontato le numerose traduzioni italiane della tragedia compiute in epoche diverse, ho capito che per restituire pienamente la parola di Shakespeare e rappresentare la forza di quel linguaggio, così vicino a quello dei nostri giorni, fosse necessario il dialetto. Ho iniziato così un lungo lavoro di traduzione del testo durato molti anni durante il quale mi sono reso conto che sia il dialetto romano sia quello napoletano fossero adatti per dare un “tocco” contemporaneo al testo di Shakespeare, che è stato integralmente rispettato, tranne che per alcuni tagli necessari.

 

Quanto ha contato la sua esperienza come attore teatrale in questa decisione di misurarsi con un classico come l’Otello?

Per me è stato fondamentale avere letto Shakespeare da giovane, studiarlo durante la mia formazione teatrale, recitare in seguito in una trasposizione di “Troilo e Cressida” e poi affrontarlo in modo più approfondito a 50 anni.  Si è trattato di un approccio diverso nel tempo, sono stato sempre molto colpito da quanto le sue opere continuino comunque a parlarci a distanza di secoli.

 

Ha avuto difficoltà nel proporre un progetto così anomalo ai produttori?

Ho lavorato a questo film molto a lungo, non l’ho proposto ai produttori fino a quando non mi sono sentito pronto e soddisfatto della sceneggiatura, a quel punto ne ho parlato prima a Federica Lucisano e alla sua Italian International Film e poi a Sydney Sibilia e Matteo Rovere di Groenlandia, che mi hanno dato subito il via libera perché hanno capito la mia determinazione e la forza dei temi drammaticamente contemporanei che l’Otello portava con sé.

Ricordo la mia grande soddisfazione nel poter mettere le mani da regista su un materiale emotivo che conoscevo molto bene, nel cercare di lavorare ogni giorno su un testo magnifico, importante e potente e da riscoprire. Ho potuto lavorare con una totale libertà ma mi sono imposto dei “paletti”, a partire dalla decisione di non modificare mai, per nessun motivo, le parole del testo originale: potevo tradurlo, cercare di ritrovare certe immagini dialettali adeguate, ma avevo deciso che non volevo cambiare niente e tutto questo mi ha costretto a muovermi entro dei confini bellissimi.

 

 

L’uscita del film nelle sale è stata preceduta da un masterclass tour nelle Università italiane, dove ha incontrato e dialogato con studenti: è stato un modo per stimolare nel pubblico giovanile l’interesse verso il cinema italiano di qualità?

Credo sia necessario cercare di coinvolgere il pubblico in certi spazi e penso che le Università possano avere in questo senso una funzione decisiva. Nei diversi Atenei, abbiamo avuto la possibilità di parlare di temi molto attuali come la violenza di genere, ma anche l’opportunità di interagire con gli studenti da un punto di vista più “accademico”. Ho parlato, ad esempio, del modo in cui ho lavorato alla traduzione integrale del testo: la mia idea era di riuscire a tradurre integralmente l’Otello eliminando la pietas presente in tutte le traduzioni nei confronti dell’eroe romantico vittima del troppo amore. Ho cercato invece di dar vita a una trasposizione che mostrasse la sua responsabilità ed evidenziasse come fosse in realtà il carnefice di Desdemona, nel momento storico in cui viviamo credo sia una traduzione adeguata ai tempi.  “Otello” è la storia di un femminicidio, viene chiamato “la Tragedia di Otello” ma si dovrebbe chiamare “La tragedia di Desdemona”. Questa intuizione mi ha permesso di parlare agli studenti di Shakespeare e dei temi eterni di “Otello” come la gelosia, il maschilismo, il patriarcato e la violenza di genere; e, dal punto di vista più accademico, di raccontare il lavoro fatto sulla traduzione e del modo in cui possiamo utilizzare le risorse straordinarie che vengono dai dialetti.

 

Che tipo di reazione c’è stata da parte degli studenti?

Abbiamo organizzato decine di incontri con studenti universitari tra i 17 e 25 anni. Un incredibile momento di riflessione collettiva. Offrendo loro le chiavi di lettura giuste, ci siamo resi conto di come i giovani siano molto più interessati a questi temi di quanto possiamo immaginare, perché li riguardano direttamente. A volte si parla in maniera superficiale di nuove generazioni distratte, svogliate e interessate soltanto ai social, abbiamo invece scoperto con grande soddisfazione ragazzi e ragazze adeguatamente formati e preparati, che avevano piena coscienza dei temi di cui abbiamo parlato e anche paura per quello che sta accadendo intorno a loro. Le reazioni sono state incredibili, è stato bellissimo verificare da vicino quanto Shakespeare sia ancora profondamente “rock” e porta con sé tutti gli stilemi di qualcosa che ai giovani piace perché è contemporaneo, poetico, violento, energico e tocca la loro sensibilità, fa battere il cuore, muove i moti dell’anima e non li lascia mai indifferenti”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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