IL RITORNO DI JOKER – CURIOSITA’ UFFICIALI – PARTE 2 – A COLLOQUIO CON TODD PHILLIPS

NOTE DEL REGISTA

Nel 2018, quando abbiamo iniziato a girare “Joker”, non avremmo mai immaginato che avrebbe così tanto appassionato il pubblico di tutto il mondo. Joaquin ed io avevamo parlato dell’idea di un sequel, ma mai seriamente; ma di fronte al grande consenso ottenuto dalla storia di Arthur, le cose sono cambiate.

Fin da subito sapevamo che il presupposto sarebbe stato quello di alzare l’asticella, avremmo dovuto sbilanciarci e puntare a qualcosa di folle e coraggioso come Joker stesso. Così, Scott Silver e io abbiamo scritto una sceneggiatura che approfondiva ulteriormente l’idea di identità. Chi è Arthur Fleck? E da dove proviene la musica che è dentro di lui?

— Todd Phillips

A COLLOQUIO CON TODD PHILLIPS

Regista · Sceneggiatore · Produttore

Sul motivo per cui Arthur Fleck abbia avuto tanto successo in “Joker”, e su come ha preso il via il sequel in seguito al grande consenso del primo film…

“I film tendono a essere uno specchio della società, o del momento in cui ci troviamo, soprattutto in ambito culturale. Sicuramente è stato così nel primo film; è stato davvero un enorme successo per noi: un turbine. Ci ha lasciato molto ancora da approfondire, è stato un periodo impegnativo che ha richiesto parecchio tempo per superarlo. Scott [Silver] ed io abbiamo spesso affrontato telefonicamente l’ipotesi di un sequel, di cosa avremmo fatto, e tutto si è evoluto lentamente”.

Su quali temi, lui e il co-sceneggiatore Scott Silver, avrebbero dovuto incentrare la nuova storia… “Ritengo che le tematiche affrontate nel primo film fossero piuttosto attuali. Il nostro approccio è stato quello solito, quello che si affronta per qualsiasi film, iniziando a definire i temi principali. Non si parla di struttura, anche in un sequel, non si parla tanto di personaggi, perché già conosciamo Arthur, ma ci si focalizza maggiormente sulle tematiche, su cosa avrebbe attratto il pubblico, o dove ci saremmo quantomeno auspicati di arrivare.

In “Joker” Arthur afferma, ‘Sono solo io o tutto sta diventando più folle là fuori?’, che è stato in un certo senso il calcio d’inizio del film. E credo che, guardandolo, pensi: ‘No, non sei solo tu.’ E in questo nuovo capitolo, beh, so che il personaggio non lo dice ad alta voce, ma comunque il concetto era: ‘Ciò di cui il mondo ha bisogno è l’amore.’ E quello è stato il punto di partenza della scrittura della sceneggiatura”.

Su come si sono basati sul primo film per creare qualcosa di nuovo per il sequel…

“Siamo tornati alle cose che ci piacevano del primo film, e in particolare alle fantasie di Arthur, alla vita fantasy di Arthur. Così, questo presupposto ci ha fatto maturare la libertà di fare qualsiasi cosa in questo film”.

“Avendo l’opportunità, dopo un film come ‘Joker’, pensi: ‘Beh, potremmo fare qualsiasi cosa; qualcosa che ci metta alla prova’—parlo di Scott e me come sceneggiatori, di me come filmmaker, di Larry [Sher] come direttore della fotografia. Come possiamo sfidare noi stessi in un modo che non abbiamo mai fatto prima?

Sulla storia e sui temi, in generale, del film…

“È difficile spiegare di cosa tratta il film senza entrare nei dettagli, ma essenzialmente è una storia sull’identità. È la storia di chi è Arthur Fleck e chi è Joker, almeno attraverso i suoi occhi. E cosa significa dover accettare il proprio vero io, e chi si è… Che in definitiva è quel che dovrà fare. Penso che questo film sia infinitamente più promettente del primo, per Arthur. In qualche modo, a livello tematico in “Joker” era più evidente la lotta tra Arthur e l’ombra di Arthur, e la conseguente idea che tutti noi andiamo in giro indossando maschere nella vita; e cosa accade quando ti togli quella maschera e appare il tuo vero io? Nel caso di Arthur, è stato il fatto di indossare una maschera – che confonde davvero tutto – a far emergere il suo vero io.

Su dove si trova Arthur quando lo incontriamo in “Joker: Folie À Deux”…

Arthur è in una fase di recupero in un istituto, ovviamente sotto il pesante effetto dei farmaci. Volevamo che si sentisse totalmente disconnesso e non realmente centrato, fino a quando non vede [il personaggio di Lady Gaga] Lee. Quindi, ci è sembrato giusto che non parlasse. Infatti, la sua prima battuta nel film è: “Posso avere una sigaretta?”. Anche questo mi è sembrata una frase appropriata.

Sul tempo che Arthur ha passato ad Arkham all’inizio del film…

“Non ci abbiamo pensato molto, ma ipoteticamente si trova recluso in questo istituto / prigione da un paio d’anni. Non ci siamo confrontati nemmeno con Joaquin su questo punto, perché ci piaceva ‘iniziare laddove inizia’, non so se mi sono spiegato… Quindi non si trattava tanto di dire ‘Riempiamo il buco di questi due anni e vediamo dove si trova’, quanto piuttosto ‘Ecco dove si trova adesso’. Arthur è completamente scollegato, ha perso ogni scintilla che aveva alla fine del primo film, la vita che aveva dentro di sé, e ci troviamo di fronte a un uomo abbattuto e distrutto.

Sulle prime conversazioni con Joaquin Phoenix in merito alla preparazione per calarsi nuovamente nello stato mentale e fisico di Arthur…

“Non è stato un incontro a sorpresa il nostro, ovviamente, perché abbiamo parlato per mesi prima di arrivare al punto. Ma è l’attore più impegnato con cui si possa lavorare, quindi fin dall’inizio abbiamo convenuto sulla necessità di perdere di nuovo peso. E ho detto, “Beh, questa nuova versione di Arthur non deve essere magra come nel primo film, si sa che alcuni farmaci gonfiano e inoltre fa meno esercizio fisico, non sale più le scale, è rimasto molto tempo fermo, rinchiuso”. Diciamo che non dovrà essere magrissimo. Mentre invece Joaquin ha fermamente risposto “No, no, no, assolutamente”; anzi voleva addirittura apparire più magro del primo film”.

Sulla ritrovata capacità di Joaquin Phoenix di infondere grazia ad Arthur come nel primo film, ma che lo porta a un livello superiore, compreso il tip tap…

“Ribadisco la mia idea che Joaquin, anche se non lo ammetterà mai, è in grado di fare qualsiasi cosa. Così, messo di fronte alla sfida con qualcosa di assurdo come, “Oh, e si scopre che Arthur sa davvero ballare, non solo come quella bellissima danza in bagno, ma sa ballare il tip tap”, lui lo ha fatto. Joaquin ha semplicemente risposto “Ok, lascia che ci pensi io”, e al fianco di Michael Arnold, un coreografo fenomenale, hanno studiato il tip tap per mesi.

“Oggi gli spettatori pensano che tutto ciò che appare sul grande schermo sia in CG, che tutto sia finto. Quindi, ho immaginato che la gente penserà che abbiamo messo la testa di Joaquin sul corpo di un ballerino. Mentre invece fa tutto lui, e non sbaglia un passo. È pazzesco. Voglio dire, Jeff ed io a volte in sala montaggio siamo andati alla ricerca di un errore, e invece niente. Non sbaglia mai un colpo”.

Sul momento in cui Arthur incontra Lee, e sulla trasformazione che avviene dentro di lui…

“Beh è ​​una scena complicata perché, come noterete nel film, entriamo in slow-motion nell’istante in cui la vede. Ci piaceva l’idea che fosse un po’ fuorviante, perché la prima volta ci ha ingannato con Sophie: la loro relazione non era reale. Quindi ci siamo un po’ appoggiati al concetto ‘è davvero reale?’ E in particolare quando lei si punta la pistola alla testa, se guardi il film per la prima volta pensi, “Ok, ho capito. È inventata, non è reale”. Si scopre invece che è vera, e lo fa perché hanno girato un film per la TV su Arthur, e quel gesto ne faceva parte.

“E poi, quando entra in nel padiglione della donna e ascolta la sua voce che intona con classe quella canzone, in un certo senso si capisce che in Arthur qualcosa sta cambiando, o meglio che qualcosa si sta risvegliando”.

Sul personaggio di Lady Gaga, Lee Quinzel…

“Lee crede in ciò che Arthur ha fatto e in ciò di cui ha parlato al ‘Murray Franklin Show’. Ha guardato il film che hanno fatto su Joker almeno dieci volte”.

Su ciò che Lady Gaga apporta al film nei panni di Lee che, con Arthur, si muove tra realtà e fantasia…

“Ciò che apporta, a modo suo, è una realtà al personaggio. E ha capito appieno il primo film. Le nostre prime conversazioni sono state più incentrate su “Joker”. E lei, credo, si è calata piuttosto facilmente in quel mondo. Al contempo, non voleva essere la Harley Quinn di un altro film, o la Harley Quinn dei fumetti. E’ la Lee di questo mondo. Ancora una volta, entrambi questi personaggi così come Harvey Dent, Gotham, ecc sono stati creati in precedenza, e gli attori hanno già interpretato questi ruoli. Quindi, tutto ciò che stavamo facendo di diverso era cercare di radicarli in un mondo reale. E’ vero, in altri film sono stati ancorati a mondi reali, ma non attraverso la lente del nostro mondo, direi”.

Su come è nato il termine “folie à deux” per questo film…

“Nelle ricerche che Scott ed io abbiamo intrapreso sui disturbi mentali in generale, e sui diversi tipi di condizioni, ‘folie à deux’ è un termine effettivo usato nel DSM IV, uno di quei libri dove si parla di follia condivisa. Nel film, la si può interpretare in molti modi. Si può dire “Oh, beh, ovviamente, è una follia condivisa tra i due protagonisti “. Oppure, è tra Arthur e Joker la sua folie à deux interiore? Dipende davvero, a mio avviso, dall’ottica da cui si guarda il film”.

Sull’importanza di aggiornare il pubblico su come il mondo ha reagito a Joker dopo gli eventi del primo film, attraverso la sua intervista con Paddy Myers, interpretato da Steve Coogan…

“Ho pensato che fosse importante per varie ragioni. Credo che in molti si siano posti delle domande dopo i titoli di coda del primo film, che vede Arthur recluso in un istituto. Ricordo che la gente mi chiedeva sempre: “È successo qualcosa? Era tutto frutto di fantasia?” Quindi, abbiamo pensato che sarebbe stato divertente e coinvolgente rispondere ad alcune di quelle domande, a grandi linee, e spiegare perché è qui a pagarne il prezzo”.

Sul ritorno di un paio di personaggi del primo film…

“Per me, riportare alcuni di quei personaggi è stato parte del divertimento della realizzazione del sequel. Leigh Gill – una delle mie figure preferite del primo capitolo – torna ad interpretare Gary Puddles, e ovviamente Zazie [Beetz], nei panni di Sophie Dumond, è semplicemente la migliore. E’ stato bello riaverli per poter riportare in vita quei personaggi”.

Sul fatto che Arthur si mostri più forte o dia cenni di cedimento nel corso di questo film, specialmente durante il suo processo…

“Era importante trasmettere, in qualsiasi forma, che Arthur ha fondamentalmente accettato di essere questo ‘Arthur’, quando lo incontriamo all’inizio. E per ragioni che non voglio rivelare, Arthur inizia lentamente ad abbracciare questo personaggio che ha creato, quest’altra parte di lui. Così, inizia ad appoggiarsi a Joker il più possibile”.

Sulla gestione di un set aperto, sulla volontà di provare le scene il giorno stesso e sulla filosofia che c’è dietro…

“Naturalmente seguiamo sempre un piano già prefissato, ma ci piace anche la possibilità di discostarcene quando possibile. Penso che il sentirsi liberi, slegati, pensando che tutto può succedere, aiuti gli attori. Sembra che… la giornata sembri più viva. Non è che lo preferisca, ma se vogliono provare tre modi differenti di fare qualcosa, non direi mai “No, no, Jackie è fatto così, quindi voglio solo vedere le sue tre marce, o al massimo cinque”… ma nel caso di Joaquin sono 19, giusto? Quindi è come se dicessi “Sì, fammi vedere tutto”, perché un film viene scritto tre volte. Prima da Scott e me, poi Larry ed io in un certo senso ci rimettiamo le mani, e poi Jeff [Groth], il montatore ed io facciamo la terza bozza, quella finale.

Di conseguenza, non sappiamo se il Jackie che ho scritto un anno e mezzo fa con Scott sarà lo stesso Jackie che finisce nel film. Ma se Brendan è disposto a fare tre versioni del suo personaggio, o a interpretare una scena in un modo, e poi a provarla in modo completamente diverso, va tutto a vantaggio dell’ultima fase di scrittura, che è il montaggio, no?”

Sul personaggio di Brendan Gleeson, la guardia carceraria Jackie Sullivan…

“Jackie pensa di portare un po’ di luce in un posto buio come l’Arkham State Hospital. Ma lo fa per sé stesso, non è affatto interessato ai prigionieri e ai pazienti. Ci piaceva l’atmosfera che emanava, di come questo tizio dalla camminata sbarazzina faceva roteare le chiavi con disinvoltura in ​​un posto davvero deprimente e buio”.

Su cosa ci fosse di speciale nel lavorare con Brendan Gleeson…

“Brendan, voglio dire, è un attore leggendario con alle spalle un pesante bagaglio di esperienza, e come attore è un orso per certi aspetti. Con Joaquin, quello che ho imparato all’inizio del primo film, è che è ancora più bravo: le persone migliori lo stimolano al confronto, capite cosa intendo? Se si affianca a Robert De Niro verrà fuori una scena magica. Quindi, anche se non ricopre una parte gigantesca all’altezza di uno come Brendan Gleeson, è stato come dire “Oh, fantastico, un altro peso massimo insieme a Joaquin”.

Sul coinvolgimento di Lady Gaga e sulla sua abilità di spogliarsi dell’arte da cantante pop…

“Volendo inserire la musica nel film nel modo da noi scelto, abbiamo reputato davvero importante scritturare un’artista da porre al fianco di Joaquin che portasse con sé la musica. In aggiunta, è sempre utile che abbia senso per il pubblico, e capire il motivo per cui canta e perché proprio in quel momento. Nel film abbiamo cercato di evitare che si mettessero semplicemente a intonare una canzone. C’è sempre una ragione, qualcosa che li spinge a farlo. Si sono fatti strada quasi farfugliando, per rendere più organico il loro approccio nel film. Avevo già lavorato con Lady Gaga in modo marginale: ero un produttore di “A Star Is Born”, ed ora abbiamo stretto amicizia.

Ha talento da vendere. Quindi nella stesura della sceneggiatura, Scott ed io abbiamo iniziato a pensare a lei.

“Detto questo, Lee non doveva essere una cantante professionista, né volevamo che cantasse male, anche perché sarebbe stato impossibile. Joaquin non canta male. La chiave era che il canto provenisse dalle emozioni e non dalla tecnica. È un modo un po’ granulare di vedere la situazione, ed insieme a lei se n’è discusso. È facile per una cantante professionista ripiegare sulla tecnica, mentre invece noi eravamo più interessati ad entrare nell’emozione”.

Sulle riprese delle performance musicali dal vivo e su come ciò abbia influenzato la musica scaturita dalle emozioni…

“Questo è esattamente un ottimo esempio di ciò che intendo, nel senso che non si può pre-registrare in studio un mese e mezzo prima di girare il film, e aspettarsi che gli attori mostrino l’emozione che dovrebbero avere dietro la canzone. Quindi, l’unico modo per risolvere il problema è cantarla dal vivo, il giorno stesso. Chiaramente, lei era in grado di farlo, essendo una cantante professionista. Per Joaquin, pensavo che sarebbe stato più difficile convincerlo, o farglielo fare, o che sarebbe stato in grado di farlo. Ma, come al solito, mi ha lasciato senza parole. Continuo a dire che lui… può fare qualsiasi cosa”.

Sulla musica nel film che diventa un elemento chiave di questa storia…

“E’ un argomento che avevamo preso in considerazione ancor prima di parlare di un sequel. Ho proposto da subito a Joaquin l’idea che Arthur ha la musica dentro di sé, che ha un certo brio e un certo romanticismo, già nel primo film. E anche se non amo parlare per conto di Joaquin, penso che questo concetto di avere la musica dentro abbia davvero guidato Joaquin, fin dal primo capitolo. Soprattutto quando balla nel bagno, ma anche nelle sue movenze nel corso del film. Quindi, abbiamo pensato che fosse un punto di partenza logico”.

Sul tipo di musica scelta per il film; da cosa lui è stato ispirato…

“Beh, la scelta della musica in un film del genere è un compito enorme. Ho sempre voluto che la musica sembrasse quella che Arthur conosceva, che forse sua madre ascoltava a casa quando era piccolo. Quindi, molto è venuto da lì. Se ricordate, nel primo film ascolta Lawrence Welk alla radio, con sua madre; di conseguenza abbiamo desiderato abbracciare il tipo di atmosfera old-school della musica.

“Così, per questo film non abbiamo scelto brani originali, perché volevamo che fossero canzoni che Arthur conosceva. Abbiamo reputato che non avrebbe avuto senso impiegare un grande cantautore per scrivere musica originale, perché non ci saremmo avvicinati ai nostri standard, e che non sarebbe sembrato molto da ‘Arthur’ creare canzoni originali. Quelle che esistono nel mondo sono le stesse canzoni che ha in mente”.

Sulle selezioni delle canzoni e sul modo in cui sono state scelte…

“Il tutto già avveniva più o meno nella stesura della sceneggiatura, quando Scott e io passavamo in rassegna canzoni e cose a nostro avviso appropriate. La prima canzone che ci è venuta in mente da far cantare ad Arthur è stata ‘For Once In My Life’, che per me racchiude in un certo senso il desiderio di Arthur di una connessione umana. Abbiamo iniziato ad ascoltare la canzone più volte, e quello è stato il punto di partenza per l’inclusione della musica nel film. Perché anche se abbiamo sempre parlato di musica e di Arthur, non è iniziato tutto con questa idea di fare musica. Eppure, una volta definita, abbiamo semplicemente immaginato che Arthur la facesse essenzialmente in un manicomio”.

Sul coinvolgimento di Jason Ruder come produttore musicale esecutivo…

“Se Jason Ruder non fosse stato disponibile, avrei posticipato le date del film. Avete presente quando si sposta un film per gli impegni di un attore? Ecco probabilmente avrei fatto lo stesso se Jason non fosse stato libero. Ha lavorato a tantissimi miei film, è una parte davvero fondamentale per il sound, e in particolare per la musica, ovviamente. Abbiamo un modo tacito di lavorare insieme. Ha aiutato Hildur [Guđnadóttir] nel primo film, rendendo la colonna sonora della compositrice una parte essenziale della pellicola. Voglio dire, è letteralmente il secondo personaggio più importante del primo film. E questo è tutto merito del lavoro congiunto di Jason e Hildur, ovviamente, e di Jason che ha da subito capito l’atmosfera del film”.

Sull’aspetto e la sensazione realistica dello spazio…

“Penso che per ogni film – questo non è un caso isolato – si ricerchi il più possibile l’attinenza alla realtà. Questo vale per il guardaroba, i costumi e la scenografia, gli attori di sfondo. Si mira all’autenticità”.

Sull’allestimento dei set a 360 gradi e sul perché quel livello di immersione è stato così importante…

“Beh, la scelta del set a 360 gradi appartiene a Mark Friedberg [scenografo] allo stesso modo in cui io e Larry [Sher, Direttore della fotografia] giriamo; ma anche a Joaquin, collocandolo in un posto dove ci sono quattro pareti. Con un attore come lui, non si vuole necessariamente dettare legge, ma si vuole dargli la libertà di percepire gli spazi”.

Nella scena di trasformazione con gli ombrelli, dove il colore viene introdotto per la prima volta e tutto inizia a cambiare per Arthur…

“Beh, per me, mostra davvero che c’è ancora della magia in Arthur. E quindi, quando escono da quelle determinate porte e c’è il grigiore, la pioggia e tirano fuori gli ombrelli, Arthur vede i colori. Quindi, l’idea è che lui è qui da due anni: e com’è stato? In quei primi 10 o 12 minuti, è abbattuto. Ma quando esce e alza lo sguardo si rende conto che c’è ancora un po’ di magia. C’è ancora un po’ di luce. Non si è ancora spenta del tutto. Questo è più o meno ciò che rappresenta”.

Sull’assicurarsi che la tavolozza dei colori, la scala e l’aspetto generale del film sono diversi da quelli di “Joker”…

“Non volevamo fare nulla che fosse una rivisitazione del primo film. Volevamo che questo sembrasse completamente diverso, pur continuando a seguire il linguaggio dell’originale. Così, la tavolozza dei colori all’inizio di questo capitolo riflette il finale del precedente. Solo quando Lee appare, e quando tornano la magia e la musica nella vita di Arthur, le cose iniziano a cambiare per lui. [Lo scenografo] Mark Friedberg ed io abbiamo parlato fin da subito della necessità di dare l’impressione di aver girato questo film molto tempo fa, non con set in CG e schermi blu. Volevamo che sembrasse, almeno riguardo alle sezioni fantasy e quelle musicali, un ritorno ai film di allora”.

Sulle riprese brevi effettuate nuovamente a New York, incluso il tribunale e le ormai famose scale…

“Il vantaggio del primo film è stato che siamo passati relativamente in sordina. Voglio dire, è vero che c’erano i paparazzi e la gente che si ammassava, come in ogni film. Ma in questo caso è stato diverso. Ad esempio, le scale nel Bronx hanno rappresentato una sfida davvero ardua. Il quartiere è incredibile e i passanti ci abbracciavano: tutto merito del mio primo assistente alla regia David Webb e della sua troupe e del trattamento riservato agli abitanti del quartiere, di come li hanno fanno sentire partecipi, reclutando addirittura ragazzi del posto per lavorare sul set. Quindi, il quartiere è stato ospitale, ma talvolta è stata una sorta di invasione di estranei che ha reso le riprese a New York molto più difficili di quanto non fossero nel primo film. Allo stesso tempo, almeno Joaquin e io, ci siamo un po’ adattati e ci siamo detti: “Ehi, questo è: andiamo avanti col lavoro e basta”. In qualche modo tutte queste circostanze alimentano il film, le performance o il modo in cui Larry e io lavoriamo. Quindi, anche se può capitare di dire: “Oh cavolo, oggi siamo proprio fottuti”, alla fine tutto va sempre a favore del film.

Sul ritorno della compositrice premio Oscar® Hildur Guđnadóttir…

“È stata una decisione scontata. Non c’è versione di questo film in cui non avremmo chiamato Hildur per la colonna sonora. Come ho già detto, penso che la sua musica sia praticamente il secondo personaggio più importante nel primo film. Così, abbiamo iniziato subito con lei, proprio come avvenuto nel film originale, sottoponendole la sceneggiatura. Inoltre, dopo averla letta ed aver iniziato a scrivere la colonna sonora, ha tenuto conto di alcuni dei nostri arrangiamenti delle canzoni, ad esempio, “For Once In My Life” o “Bewitched”, e le abbiamo chiesto di, beh, Hildurizzarle. Non abbiamo usato quella parola, l’ho inventata io, ma di inserire il suo sound in quegli standard. Ovviamente ha accettato e, credo, si sia anche divertita. Fa sentire quegli standard come se facessero parte del nostro film”.

Sulla sequenza animata nel film…

“Ho pensato che fosse importante che questo film desse l’impressione che i detenuti gestissero il manicomio; quindi abbiamo parlato di una specie di apertura alla Looney Tunes, e di quale sarebbe stata la nostra versione, se avessero fatto dei cartoni animati su Joker all’epoca. Il concetto era ‘E se mostrassimo uno di quegli episodi, che fosse tematicamente incentrato su ciò di cui parla il primo film – e in un certo senso anche questo – sull’idea di Arthur e della sua ombra?’.

Sulla collaborazione con il leggendario animatore Sylvain Chomet…

“Una volta deciso di includere l’animazione, ci siamo detti: ‘Ok, è fantastico, ma a chi affideremo questo compito?’ Ho un amico a Parigi che lavora per la Paris Cinematheque, a cui ho scritto una email per chiedergli, ‘Conosci Sylvain Chomet? Sono un suo fan. Scott e io abbiamo visto i suoi film e ne abbiamo parlato molto.’ Così, mi ha dato il suo indirizzo e gli ho scritto di getto, presentandomi. Lui conosceva il primo film e da lì abbiamo cominciato a parlare”.

“Per mesi mi ha inviato i disegni dei personaggi, di Arthur e degli altri elementi presenti nei set. Non avevo mai fatto animazione prima, né lavorato con un animatore, e lui fa parte della vecchia scuola. Ha fatto tutto a mano, ecco perché il film ha un aspetto meraviglioso e un’atmosfera da vecchia scuola. Sylvain è stato la persona più piacevole con cui avere a che fare, il suo team è stato fantastico, non ci sono stati inconvenienti. È andato tutto liscio. Per me, è stato semplicemente il massimo. L’ho adorato”.

Sulla creazione di un’esperienza realmente cinematografica per il pubblico…

“Farò sempre film per il cinema. Ho amici e colleghi che girano film per lo streaming, cosa che io non farò mai e poi mai. Piuttosto non farei più film, perché credo davvero che l’esperienza in sala, ovviamente non è una novità, è ineguagliabile ed è una parte importante dell’esperienza di guardare un film. Non solo nello spazio comune condiviso con 400 sconosciuti, ma anche nelle dimensioni, nel suono e nelle sensazioni che provi e che il film evoca. Quindi, Larry, Mark ed io, come ogni membro della troupe, realizziamo questi film per l’esperienza cinematografica. E, in particolare per questo progetto, Larry e io abbiamo puntato molto sull’IMAX. Questo film visto nel vero IMAX, è pazzesco”.

Su cosa troverà il pubblico che ha amato il primo film quando vedrà “Joker: Folie À Deux”…

“Beh, penso che se ami il primo film è perché hai amato Arthur, dato che in realtà è tutto incentrato su di lui. Per questo si spera che riaffiori quell’amore per Arthur, il personaggio. Ed è in un certo senso quello su cui ci siamo basati. Credo che ci fosse molto più amore di quanto pensassimo. Voglio dire, il film è stato molto più grande di quanto immaginassimo. Il grande consenso è nato non solo per quello che Larry e io abbiamo fatto, per il modo in cui lo abbiamo girato, non solo per i set che Mark ha costruito, ma soprattutto per l’amore per il personaggio che Joaquin ha creato. Quindi, abbiamo pensato che se ci fossimo appoggiati a questo concetto, e ci fossimo davvero basati sullo scomporre e smontare Arthur alla fine, sarebbe stato giusto”.

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