Intervista a Pietro Castellitto Dall’11 gennaio SOLO AL CINEMA: “Enea”

Perché ha scelto di raccontare personaggi e ambienti alto-borghesi, che cosa le stava a cuore portare in scena?
Pensavo a un ambiente particolare, quello che viene comunemente chiamato “Roma bene”, un luogo di contraddizioni, carica di possibilità narrative, tra ricchezze, eccessi, contrasti, gioie, dolori, segreti e bugie, e in cui si trovano conflitti interessanti che generano storie. Mi dava l’idea di essere un luogo dove tutto può accadere. Il film racconta le insofferenze di alcuni giovani appartenenti alla ricca borghesia romana, ma volevo svincolarmi dal cliché secondo il quale una famiglia borghese genera sempre e comunque figli nichilisti. Enea, il personaggio che io stesso interpreto, proviene da un contesto umano sicuramente alto-borghese, ma da una famiglia piena di umanità e per niente apatica, che affonda le sue radici in quell’Italia d’estrazione popolare e perbene che vive del suo lavoro. I suoi genitori rappresentano il ramo più riuscito, hanno studiato e hanno fatto i soldi, le radici sono sane. Si dice spesso che i giovani sono tristi perché il futuro è incerto, ma nel nostro caso i ragazzi come Enea sono a disagio perché il futuro è troppo sicuro. La sua generazione è nata in un contesto di valori molto preciso, ma quando sei giovane non te ne importa nulla dei valori che erediti: se quelli che ti hanno insegnato, e gli orizzonti a cui sei destinato, non ti fanno sentire felice, vuoi creartene di nuovi e combatti quelli originari. Enea si muove in una Roma in cui sacro e profano si incontrano ai loro massimi livelli e in quel contesto cerca di rendere mitica la propria vita e di sentirsi vivo a tutti i costi. Se i luoghi che frequenta possono essere a loro modo elitari, la vitalità non lo è, è incorruttibile e quel desiderio di sentirsi vivi per me non è elitario ma trasversale, appartiene a tutti i giovani di qualsiasi epoca, città, estrazione e quartiere. Il disagio che sente è quello di provare a vivere essendo all’altezza delle sue ambizioni in un’epoca in cui la paralisi prolifera. Il bisogno che muove le sue scelte è sentire dentro di sé il movimento della vita, così come provano a sentirsi vivi tutti i personaggi del film. Ed è da qui che nasce il conflitto.

Nel suo film c’è anche una parte di genere gangster che arriva ogni tanto all’improvviso…
Mi interessava mostrare le conseguenze del sottobosco criminale nella vita di tutti i giorni. Ma questa dimensione appare a sorpresa con Enea. Credo che il punto di vista interessante sia quello di raccontare una storia gangster senza la parte gangster, una storia di genere senza il genere. Mi sono reso conto che avevo l’energia e le motivazioni giuste per scrivere finalmente il copione soltanto quando ho individuato la prospettiva, i margini giusti e un punto di vista forte. Il punto di vista dei personaggi coincide con quello di chi subisce il narcotraffico: a un certo punto si vince, poi si perde, poi si muore… è come se fossimo in una scacchiera gestita da un Dio che non conosci, c’è sempre qualcuno sopra di sé, è una matrioska di intenzioni. In fondo si tratta di un film che è una sorta di un testamento della gioventù: Enea è un ragazzo di quasi 30 anni che rimarrà a quell’età per sempre, tutto quello che fa, lo fa per sentire dentro di sé il movimento della vita, il che è tipico della gioventù.

Quella che ha scelto di raccontare è anche un’intensa storia d’amore e di amicizia…
Sì, a un certo punto per Enea arriva un amore ortodosso e classico con Eva (Benedetta Porcaroli, la mia prima e unica scelta per il personaggio) che diventa la sua compagna e soprattutto la sua coscienza. Lei percepisce che il suo spirito d’avventura lo porta a compiere scelte sbagliate e prova a redimerlo. Ma arriva anche una forma d’amore sui generis anche con Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio), il suo miglior amico, il suo sodale gentile e malinconico, la sua anima gemella e affine. Si muovono in una dimensione in cui solo lui e Valentino possono capirsi: i due hanno dei segreti che soltanto loro conoscono perché hanno condiviso i passaggi più intensi e avventurosi della loro vita, c’è un cantuccio di intimità che è soltanto loro e questo porta a un sentimento che è anche amore. Sono entrambi eroi romantici, sono mossi da una curiosità e una vitalità romantica, tutto quello che fanno lo fanno per temprare il cuore, per crearsi grandi ricordi, per spirito d’avventura. Per loro si tratta degli elementi basilari dell’esistenza, ancora prima di fare la cosa giusta hanno voglia di sentirsi vivi. L’etica di Enea e Valentino è liquida, post ideologica: loro non sono nichilisti, si ritrovano in un mondo che porta al nichilismo ma combattono contro quel nichilismo.

Come è arrivato a scegliere il cantautore e rapper Giorgio Quarzo Guarascio per il ruolo di Valentino?
Mentre scrivevo il copione ascoltavo la musica di Giorgio, o meglio quella del suo alter ego artistico Tutti Fenomeni. Avevo visto e ascoltato alcune sue interviste e mi sembrava che parlasse bene e esprimesse bene i suoi concetti, ho scoperto in lui una temperatura, una frequenza che non esisteva nel cinema italiano e che era difficile da imitare. Ho scoperto la consapevolezza del suo corpo, una maturità gestuale così evocativa, così simbolica da farmi capire che avesse le caratteristiche perfette per il personaggio di Valentino che stavo immaginando. Quando ho deciso di scegliere lui sono decollati tutti gli altri personaggi ed è partita l’intera storia. Al momento del casting poi ho fatto altre scoperte bellissime come quelle di Adamo Dionisi (Giordano), Matteo Branciamore (Gabriel), Chiara Noschese (la madre) e Giorgio Montanini. Si sono rivelate tutte persone incredibili con una vita interiore e una personalità non comuni, è sempre molto bello lavorare con chi è abituato a filtrare le esperienze della vita in maniera originale e ha il coraggio di non essere retorico.

Come mai ha scelto suo padre Sergio Castellitto per la parte del padre di Enea?
In un primo tempo non pensavo fosse questo il progetto giusto in cui coinvolgerlo, pensavo fosse meglio aspettare una storia in cui potesse essere il protagonista assoluto. Poi ho capito che era un mio autoconvincimento per sfuggire a un incontro che consideravo inevitabile. Il mio timore era quello per cui, se conosci molto bene qualcuno nell’intimità, può essere imbarazzante stabilire con lui un rapporto professionale più formale e funzionale. Ho provato in tutti i modi a non sceglierlo ma sentivo, sapevo, che avrebbe interpretato alla grande quel personaggio e credo proprio di non aver sbagliato. Una volta sul set si è rivelato perfetto per il ruolo, ho avuto da lui tutto quello che volevo e anche di più perché è un attore sempre imprevedibile.

E come è stato relazionarsi con una nuova compagine produttiva?
Lavorare con una compagine produttiva come quella capitanata da Lorenzo Mieli, Vision Distribution e Luca Guadagnino è stato bello e naturale sin dal principio. All’inizio avevo chiesto a Luca Guadagnino un aiuto a entrare in contatto con alcuni direttori della fotografia stranieri, ma lui si è incuriosito e ha voluto leggere il copione. Poi lo ha fatto leggere a Lorenzo Mieli. È rarissimo trovare un grande regista del cinema mondiale come Guadagnino, tanto generoso verso un ragazzo con il quale ha sempre interagito alla pari. Lorenzo Mieli è stato subito entusiasta della sceneggiatura, mostrando grande fiducia nei miei confronti. È un produttore davanti a cui puoi aprirti e dire tutto senza frenarti o sentirti giudicato, a me non capita quasi mai. Questo è fondamentale per iniziare un dialogo creativo. Lorenzo si è rivelato un interlocutore con il quale mi sono sempre sentito felicemente libero.

Che cosa ricorda più volentieri del periodo della lavorazione?
Si è trattato di un continuo flusso di emozioni e di conoscenza, di solito ci si rende conto solo in una fase successiva delle esperienze belle che diventano un ricordo, io invece già mentre giravo ero consapevole che tutto quello che stavamo facendo mi sarebbe rimasto dentro per sempre.

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