Siccità di Paolo Virzì – Dal 29 Settembre – Solo al cinema – INTERVISTA A PAOLO GIORDANO

Siccità di Paolo Virzì – Dal 29 Settembre – Solo al cinema

INTERVISTA A PAOLO GIORDANO – Che firma con Virzì anche il soggetto

Che cosa si racconta in scena?

“Nella Roma di oggi o di un futuro piuttosto vicino nel momento più grave di un’emergenza idrica, un folto gruppo di persone si trova alle prese in modo piuttosto convulso con un inaridimento che riguarda anche le proprie vite, i desideri e i sentimenti. Intrecciandosi, tante storie diverse trovano paradossalmente ognuna
una sua strana nuova speranza: secondo me questo è un film che non rinuncia a un’idea di speranza. Non è consolatorio, perché forse il particolare contesto fuori dall’ordinario è un modo di parlare di tematiche sociali che sono meno squillanti, ma hanno la stessa importanza. Non è un film che si permette di essere
finto, ma secondo me, non rinuncia a un’ipotesi di speranza come tutte le storie dovrebbero sempre cercare di fare”.

Uomini e donne di età, estrazione sociale e contesti diversi cosa li accomuna?

“Il tentativo è stato quello di dar vita ad un affresco da commedia umana che fosse “largo” sia sulle zone di Roma portate in scena, sia sulle estrazioni sociali e le età dei vari personaggi, che va, da quella degli adolescenti a quella dei nonni e abbraccia la politica massimalista fino alle borgate. Il copione aveva questa vocazione larga da comedie humaine e questo è significativo perché sia a Virzì che a noi sceneggiatori stava a cuore mostrare un’emergenza che, da una parte avesse un effetto livellante, (dato che agisce verso tutti) e dall’altra, esasperasse le differenze e le iniquità sociali..” Vedendo il film realizzato, si nota ancora meglio un alto livello di esasperazione. Intorno ai vari personaggi c’è un contesto di emergenza, ma il motivo per cui questo contesto diventa storia è che quando li conosciamo hanno tutti in comune il fatto di essere secchi einariditi: la siccità li pervade anche sentimentalmente ed emotivamente. Il film appare così come una ricerca per inumidire questo terreno arido, sia come contesto esterno, sia nei personaggi: così il Tevere in secca appare come una radiografia di ognuno di loro, in un ambiente che può essere borghese, di periferia o altro ancora”

Si nota l’assenza programmatica di qualsiasi giudizio o moralismo nella rappresentazione dei vari personaggi

“Certo, è qualcosa che appartiene al DNA di ognuno di noi, anche se forse io tendo a un impianto più strettamente tragico. Il giudizio non si poneva affatto come istinto, che era invece quello di disinnescare col sorriso e una messa in discussione più divertita dei personaggi. Questo per me è stato un aspetto più nuovo e divertente e mi sono sintonizzato volentieri a mia volta con loro. Quello che trovo interessante di questo mio
mestiere extra di sceneggiatore è che mi costringe a sintonizzarmi su mondi e contesti che non sono automaticamente miei”.

Il film appare una riflessione dura e a volte triste sul presente e l’immediato futuro. Credete che oggi sia più difficile impegnarsi nel cinema civile di denuncia attraverso la satira di costume?

“Un certo tipo di commedia italiana, anche se a volte funziona ancora oggi, soffre per una certa polverizzazione della società. Alcuni stereotipi o tipizzazioni dei nostri connazionali oggi sono più difficili da rappresentare rispetto agli scorsi decenni, perché i tipi umani e sociali sono meno riconoscibili. Il contesto civile e sociale rispetto a quell’epoca è cambiato, c’è più rimescolamento, più variazioni su un ”continuum”: un determinato tipo di approccio non funziona più così bene. Ci sono intere parti della società che vengono tagliate fuori come pensiero o riflessione, a me capita di sentirlo molto quando si parla di libri e di cultura in modo diverso, non c’è più un riferimento culturale, un centro, ma moltissimi rivoli e quindi è tutto più difficile. Per quello che ci riguarda credo però che Siccità risolva comunque un problema di un certo tipo di contesto, c’è un grande contesto che ci accomuna e in quest’ambito vediamo le traiettorie dei singoli uomini e donne che non sono emblemi, ma dei personaggi. Io ho riferimenti diversi rispetto ai personaggi che rappresentano una classe sociale, tendo a vedere individualità più complesse e anche più ibride. Noi sceneggiatori abbiamo parlato molto delle storie che sono venute fuori chiacchierando, non abbiamo teorizzato, questo discorso era tutto più implicito. Nel nostro film ha una parte decisiva l’incastro della storia e quando lavori, ti occupa molto la mente la mappa di queste storie e, in un certo senso, questo ci ha impedito di fare troppa teoria”.

Avete scritto in qualche caso in funzione degli interpreti o la loro scelta è arrivata solo a copione ultimato?

“C’è stata una certa compenetrazione tra le due cose, è un modo di lavorare tipico di Virzì, Archibugi e Piccolo che mi sembrava molto collaudato. Era naturale che nelle nostre sedute di sceneggiatura ci fosse uno scambio continuo tra “scriviamo il personaggio” e “pensiamo già a chi lo interpreterà”; c’era sempre una sorta di “schermata a latere” in più e questo ci ha dato molta forza. Se scrivi un personaggio astratto, ma che ha già i suoi connotati, è come se ricevesse anche un po’ di energia in prestito dall’attore o dall’attrice che lo interpreterà. Ad esempio, Valerio Mastandrea è stato sempre, fin dall’inizio, nelle nostre teste come interprete ideale per il personaggio dell’autista in crisi: ci siamo ritrovati facilmente a scrivere a suo favore
tutto quello che poteva venire fuori con le sue caratteristiche di lui come persona”

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