DAL 27 GIUGNO L’amore dura tre anni TUTTE LE CURIOSITA’ UFFICIALI

DAL 27 GIUGNO L’amore dura tre anni TUTTE LE CURIOSITA’ UFFICIALI

Sinossi E INTERVISTE

Marc Marronier (Gaspard Proust) è un critico letterario di giorno e un cronista mondano di sera con una visione disincantata dell’amore: come molte cose nella vita, secondo Marc, anche l’amore ha una data di scadenza… può durare al massimo tre anni, ossia il tempo esatto che ha impiegato il suo matrimonio per andare allo sfascio! La moglie, Anne (Elisa Sednaoui), gli ha preferito un nuovo compagno, uno scrittore di successo. Per ripicca e per sfida, Marc si getta a capofitto nella scrittura di un cinico pamphlet contro l’amore. Nello stesso momento, la sua vita viene scossa dall’incontro con l’irresistibile Alice (Louise Bourgoin). Poco a poco, le sue certezze cominciano a vacillare e capisce che deve rimettere in discussione tutto ciò che ormai aveva dato per assodato nel suo manuale sull’amore, sul sesso e sui legami affettivi.

 

FRÉDÉRIC BEIGBEDER – Il Regista

 

Scrittore e critico letterario prima che regista, Frédéric Beigbeder è nato a Neuilly-sur-Seine nel 1956. Il suo motto «Non mi piace parlare bene di me, preferisco parlare male degli altri», racchiude il suo stile nichilista e provocatorio, capace di spaccare l’opinione pubblica su vari temi a partire da spunti autobiografici. Dopo essere stato redattore in una grande agenzia pubblicitaria, Beigbeder collabora come critico letterario per alcune riviste come Elle e Paris Match. Nel 2000, conscio che la pubblicazione gli avrebbe causato il licenziamento, dà alle stampe il romanzo che gli vale la celebrità, 99 francs, impietosa denuncia del mondo della pubblicità, subito caso editoriale. L’AMORE DURA TRE ANNI è il suo esordio alla regia, adattamento del suo stesso romanzo pubblicato in Italia da Feltrinelli.

 

INTERVISTA A FRÉDÉRIC BEIGBEDER

 

Perché ha scelto di adattare uno dei suoi romanzi per il suo primo lungometraggio ?

Per essere tranquillo. Mi sono detto che se avessi preso una storia personale, un romanzo autobiografico, avrei potuto tradirlo come volevo! Inoltre mi avrebbe permesso di  inserire il mio primo film in un genere preciso (la commedia romantica). Quando fai il tuo primo film, devi, prima di tutto, vincere la paura del ridicolo. Tarantino ha scelto il genere poliziesco con Le Iene. Altri preferiscono il fantastico e la fantascienza. Io ho scelto la « rom-com » che offre una struttura molto pratica, che non ti obbliga a reinventare la narrazione, fin dai tempi dei Fratelli Lumière. Come in tutte le commedie che amo, anche questa inizia con un personaggio che è terribilmente disincantato nei confronti della vita. E proprio quando non crede più nell’amore, incontra una donna che riaccende in lui il gusto per la vita. Dopo l’incontro, l’iter è sempre lo stesso: il litigio, la separazione e poi il ritrovarsi. E’ una cornice questa, all’interno della quale c’è anche ampio spazio per il divertimento.

 

Come mai, di tutti i suoi libri, ha scelto proprio L’amore dura tre anni, che non era il più facile da adattare?

E’ vero che non sono poi molte le cose che succedono nel libro. L’ho scritto in un periodo di malinconia e di pessimismo, dopo il mio divorzio. Sulla copertina c’è scritto ‘romanzo’, ma in realtà si tratta di un diario intimo, che contiene dei piccoli aforismi.  Dopo l’adattamento di 99 francs, per mano di Jan Kounen, che giocava sul lato cinico, provocatorio e trash, l’idea era quella di mostrare un altro aspetto del mio lavoro. Una vena più calma, più intima e più sincera, che ritroviamo in Windows of the World, Un roman français, e in alcune parti di L’égoïste romantique.

 

È stato facile convincere i produttori?

L’idea di adattare questo romanzo non viene da me. Cinque anni fa, un primo produttore prese l’opzione sul libro ma io non fui coinvolto nel progetto. Per la sceneggiatura, avevo raccomandato Christophe Turpin, che mi aveva colpito molto con la sceneggiatura di Jean-Philippe.

In seguito, vi risparmio tutte le peripezie, il produttore ha abbandonato il progetto. Poi, Michael Gentile e Alain Kruger hanno ripreso i diritti del film, mi hanno detto che avrei dovuto non solo scriverlo ma anche dirigerlo. Sono arrivati un giorno a casa mia con una sedia da regista con scritto sopra il mio nome! Io gli ho risposto di no, che amavo troppo il cinema per farlo, e che non mi sentivo all’altezza. Ma poi l’idea si è fatta strada dentro alla mia testa di megalomane, ci sono voluti cinque anni perché l’idea maturasse. Poi Christophe Turpin e Gilles Verdiani hanno brillantemente lavorato sulla sceneggiatura, ed io ci ho rimesso un po’ di me stesso, introducendo la mise en abîme (la storia nella storia) del libro L’amore dura tre anni. Trovavo divertente che fosse il libro a provocare il litigio tra gli innamorati e che fosse anche un film sulla scrittura e sul mestiere di scrittore. Questo mi permetteva di fare il ritratto di un critico letterario, della sua casa editrice machiavellica, di mostrare il premio letterario ‘Prix de Flore’, tutte cose che fanno parte della mia vita e delle quali, stranamente, non ho mai parlato nei miei libri.

 

Quindi ha adattato il suo libro introducendo più cose di se stesso?

Adattare un romanzo di cui si è gli autori non è così frequente, e io l’ho vista come un’occasione per riattualizzare questa storia. Ho scelto di non essere fedele al mio libro,  anzi di correggerlo e di svilupparlo. In questo passaggio si poneva anche la questione: sono cambiato dall’uscita del libro, che risale a quindici anni fa? Ebbene no, non sono mai riuscito a superare la fatidica mannaia dei tre anni. O forse giusto un po’. È una maledizione. Anche se il mio scopo è di non essere fedele a questo titolo, bisogna constatare che gli ho sempre

obbedito…  E se il film offre alle persone l’occasione di discutere sulla questione, allora sarò contento!

 

Come ha diretto i suoi attori?

Abbiamo fatto molte prove e letture. A casa mia a Parigi, a Guéthary dove abbiamo iniziato con Louise (Bourgoin), Gaspard (Proust) e Yves (Cape, il capo operatore). Prima delle riprese, ho lavorato molto con tutti gli attori. Assieme a loro ho corretto i dialoghi. Il che durante le riprese non ci ha impedito di riscrivere i dialoghi e di fare delle scelte diverse, quando sul set ci rendevamo conto che quello che avevamo preparato non funzionava più.

 

Nel corso della preparazione arriva a fare anche degli storyboard?

Sì, ho fatto fare uno storyboard, che non è servito a nulla se non a rassicurarmi. Questo era l’unico metodo che conoscevo dall’epoca in cui scrivevo film pubblicitari. Ad ogni modo, quando ho iniziato a pensare alla sceneggiatura del mio film, avevo in testa la mia esperienza nel campo pubblicitario e mi sono ritrovato nella stessa situazione: su un set, tra cinquanta persone la cui missione era di tradurre sullo schermo quello che io avevo nella testa. La grande differenza con la pubblicità è la libertà. Uno spot per degli yogurt deve essere esattamente, inquadratura dopo inquadratura, come era scritto sulla sceneggiatura. In questo caso, sul set, ho lasciato che gli attori mi sorprendessero: più «incidenti» c’erano, più ero contento.

 

E ce ne sono stati molti di questi «incidenti»?

Non s’ingaggia JoeyStarr per fargli recitare il suo testo! Gli ho lasciato un margine di libertà ed è proprio in questo che è il migliore. Lo stesso vale anche per Gaspard e Louise a cui ho lasciato libertà di improvvisazione, partendo da una traccia precisa. Giravamo con due macchine da presa contemporaneamente per non perdere niente delle loro reazioni. Questa è una cosa che proviene dalla televisione, un’altra parte della mia vita. Quando presento Le Cercle, ci sono sei telecamere; il lavoro della televisione è quello di captare i talenti, le asperità, i momenti di riso o di verità. E quando uno dice una barzelletta e l’altro ride, è importante riuscire a catturare entrambe le cose: l’azione e la reazione. Ed io ho fatto lo stesso. Quanto più spesso possibile, avevano i loro dialoghi ma dicevo loro che, se volevano, potevano allontanarsi dal testo. E così, durante l’incontro a Guéthary e nella scena dell’hotel Amour, ci sono dei momenti d’improvvisazione.

 

Ha girato in digitale?

Sì, con la famosa Canon 5D, per i titoli di testa e per certe scene di notte, e il resto del film con la Alexa, una piccola camera che fa dei prodigi. E’ stato parlando con Maïwenn e Gaspar Noé che ho scoperto quanto fosse preferibile girare in digitale, anche con due o tre macchine contemporaneamente. Io sono molto critico nei confronti dei libri digitali ma non dell’immagine digitale! Una tale leggerezza, ve lo immaginate? Sarebbe stato un sogno per un cineasta come John Cassavetes, che aveva così tante difficoltà per trovare dei finanziamenti. Un lusso supremo: per le riprese di sera, era sufficiente attaccare una chiave USB sul mio computer per poter visionare le riprese giornaliere nel mio letto. Ma ovviamente, la tecnica non è tutto. Ho avuto la fortuna di poter contare su una squadra di talenti che non si spaventavano mai quando c’erano da fare gli straordinari. E so che devo molto a Emilie Cherpitel, la mia prima assistente, che prima di lavorare con me ha collaborato con cineasti come Wes Anderson e Sofia Coppola,solo per citarne alcuni.

 

Perché ha voluto lavorare assieme a Yves Cape, il direttore della fotografia di Bruno Dumont ?

Perché trovavo molto bella la sua luce e anche perché da Dumont è stato abituato a lavorare con degli attori non professionisti, perciò sa come catturare l’imprevisto. Era quindi pronto a prendere dei rischi e a ricevere tutto quello che i miei attori potevano proporre, al di là di quello che era scritto nella sceneggiatura. Non mi sono sbagliato, è stato incredibilmente paziente e creativo.

Un mese prima dell’inizio delle riprese, ha avuto la gentilezza di liberarsi per venire a preparare le riprese assieme a me. Questa cosa ci ha fatto guadagnare del tempo prezioso e mi ha liberato dall’angoscia. Bisognava vedere a che velocità si attivava sul set, assieme alla sua squadra di belgi. Si è divertito a fare cose che in genere non fa. Io gli ho parlato di Blake Edwards e di Alta Fedeltà di Stephen Frears…. Gli è piaciuto molto anche il fatto di ritrovarsi in un film tratto da un libro, e di essere in una commedia. E soprattutto lo eccitava il fatto che fosse elegante. E’ quello che gli ho detto quando l’ho contattato: non vedo perché gli attori francesi non debbano essere glamour. Io adoro Hollywood Party, Colazione da Tiffany

o la serie Mad Men. E ho una nostalgia di quel tipo di cinema, che non esiste in Francia. Penso a Faisons un rêve di Sacha Guitry, ad esempio: la scena d’apertura è ambientata in un appartamento borghese, le battute di spirito si susseguono, Arletty indossa un vestito da sera, Michel Simon uno smoking… Questa tradizione del cinema chic mi ha sempre fatto sognare.

 

Si ha l’impressione che abbia fatto in modo che l’emozione riesca costantemente a controbilanciare il riso e che, inversamente, una gag smorzi sempre le situazioni più romantiche.

Parlare d’amore senza cadere né nel sentimentalismo sdolcinato, né nel cinismo misogino o nella volgarità spinta, è davvero complicato! Il film deve parlare anche di sesso, ovviamente, e deve essere divertente, ma deve pur sempre rimanere bello e l’immagine non deve mai distruggere il mistero e il sogno.

 

È per questo che lei moltiplica le idee visive: i coniglietti, le varie Louise o le vignette sui titoli di coda?

Tra parentesi, sfortunatamente, ho dovuto fare parecchi tagli, che ritroverete negli extra del DVD… Come, per esempio, una scena con delle ragazze che diventano belle sotto l’effetto dell’alcool, resa possibile grazie all’uso del morphing e a tutto quello che oggigiorno la tecnologia permette di fare: non ci sono limiti. Quando riuscivo a trovare degli espedienti che utilizzassero l’immagine sarebbe stato assurdo privarsene.

Per esempio, ci tenevo molto che ci fosse una scena di strip-tease romantico nel mio film. Trovo poetica l’idea di un uomo che è appena stato lasciato e per dimenticare la sua donna va in un club di strip-tease, dove, come per magia, tutte le ballerine, le cameriere e le hostess hanno il viso e il corpo della ragazza che lo ha lasciato. Per Louise non è stata una scena facile da girare; ha dovuto imparare la «pole dance» per l’occasione! La scena è stata possibile grazie agli effetti speciali.

 

Così lei offre ciò che sarebbe impossibile nella vita reale?

Sì. Il cinema permette ogni libertà, è come un giocattolo straordinario che mi è stato offerto. E’ come se mi avessero proposto di scrivere un romanzo in giapponese! Certi autori che ammiro hanno cambiato lingua. Nabokov era russo e ha scritto in americano. Kundera ha lasciato la lingua cecoslovacca per scrivere in francese. Io non ho mai scritto in una lingua straniera, ma ho potuto sperimentare un nuovo linguaggio dalle possibilità illimitate! Girare un film non è né più facile né più difficile che scrivere dei libri, è differente. Mi sono sentito come un vampiro che succhia il talento dei suoi collaboratori! Non è così male…

Amo il termine inglese director, molto più della parola cineasta. ‘Direttore’ di una piccola banda di pazzi geniali il cui obbiettivo è raccontare una storia.

 

E questa storia, l’ha riscritta molto durante il montaggio?

Grazie al digitale, in fase di montaggio, abbiamo potuto fare una serie di prove e cambiamenti in pochi secondi. Stan Collet, il montatore del film, faceva continuamente delle proposte ed era sempre pronto a tentare montaggi alternativi. Ma non si può dire che il mio film sia stato riscritto durante il montaggio. Ho semplicemente seguito il consiglio di Maurice Pialat, che diceva che «per fare un buon film, bisogna tagliare ciò che è brutto». Durante il montaggio, può capitare che ci si renda conto che quello che abbiamo scritto non si traduce bene sullo schermo e a quel punto bisogna avere l’umiltà di cambiare, si deve ammettere, anche quando abbiamo incollato assieme tutte le sequenze, che alcune di esse non stanno in piedi. Ci sono delle scene intere che mi piacevano molto – e non solo a me –  che sono sparite. È molto triste, ma bisogna accettarlo.

 

Oggi, come percepisce l’esperienza di questo primo film?

È stato spaventoso e piacevole allo stesso tempo. Mi sono state date le chiavi del potere per una volta nella mia vita, e poiché non so se ci sarà una seconda volta, ci ho messo tutto: il mio amore per la Settima Arte, quello che ho visto nei diversi ambienti che ho frequentato, il massimo della sincerità e dell’emozione; ho voluto approfittarne il più possibile.

 

È dunque per la sua passione per Michel Legrand che ha deciso di farne il filo rosso del suo racconto?

Riguardo a Michel Legrand non c’è una parola nel romanzo, ma sono sempre stato un suo grande fan. Quando Marc Marronnier racconta che piange ogni volta che rivede Peau d’âne, è autobiografico. Fare intervenire Michel Legrand con la sua musica è stata una delle prime idee della sceneggiatura. Lo avevo incontrato tre o quattro anni fa, per parlargliene, e allora mi aveva risposto «perché no?». Gli era piaciuto il libro, e quindi ho perseverato … Mentre scrivevo la sceneggiatura l’idea si è sviluppata. Secondo me era splendido che la sua musica fosse presente durante l’incontro, che si evocasse la sua figura tutto il tempo, prima che egli  stesso apparisse in carne ed ossa alla fine del film; anche se questa, ovviamente, è una sorpresa da non rivelare al pubblico. E in effetti, credo che nella vita spesso ci innamoriamo grazie a delle canzoni, specialmente grazie a quelle di Michel Legrand.

 

L’utilizzo della musica di Michel Legrand, così come la gag del guanto di plastica, opera sul concetto di parità. C’è due volte un estratto da Il Caso Thomas Crown, e due volte la registrazione di Les Parapluies de Cherbourg, con Nana Mouskouri. Era pianificato?

È l’idea di giocare con il ricordo. Lo spettatore vede qualcosa in un momento del film, poi la storia continua e si passa ad altro, ma se gli viene mostrata nuovamente la stessa cosa, essa agisce sulla sua memoria. Come accade con le reminiscenze proustiane, troviamo questa tecnica anche in Woody Allen. Trovo affascinante il fatto che una scena ti diverta la prima volta e ti commuova la seconda. Come l’episodio delle aragoste in Io &Annie, uno dei miei film preferiti.

 

Nel suo film, lo stesso avvenimento si ripete, ma con un altro personaggio. È forse per suggerire l’idea di anima gemella, e che i due personaggi fossero destinati ad amarsi?

Non lo so. Nella mia testa, Alice ha letto il suo libro e quindi la gag del guanto di plastica può venire da lì. Allo stesso modo, la coppia di Michel Legrand e Nana Mouskouri, può avergliene parlato durante il week-end che passano assieme a Guéthary. Ma se pensiamo che siano anime gemelle, come quelle di Platone, la cosa mi sta molto bene. Questa sceneggiatura è stata riscritta molte volte, e nel corso delle varie versioni ci sono state molte idee che si sono aggiunte. È il vantaggio di avere lavorato molto duramente!

 

Ha atteso che questo progetto arrivasse alla piena maturità, invece di realizzarlo, con il suo nome, sulla scia di 99 francs?

Durante tutti quegli anni ho rinunciato diverse volte. E poi ci tornavo sopra. I produttori Michael Gentile e Alain Kruger m’incitavano. Alain è la persona che durante tutto quel periodo non ha mai smesso di crederci. Per quanto riguarda Michael Gentile, il più esperto (è il suo 8° film), è stato di grandissimo sostegno. Quando non ci credevo più, è arrivato a riservare per me una camera allo Château Marmont a Los Angeles, per quindici giorni, in modo che potessi rifinire la sceneggiatura nella Mecca del cinema! Con dei produttori così folli, era impossibile rinunciare!

Io avevo dei momenti di sconforto, o di fiacca. Nel frattempo, ho scritto anche Un roman français e Premier bilan après l’Apocalypse. Si dice che la letteratura sia un’arte maggiore ed eterna, mentre il cinema sarebbe provvisorio e recente. Il cinema è un’arte che prende più energia e tempo rispetto alla letteratura. Difatti, sconsiglio alle persone pigre di lanciarsi nella realizzazione di un film. Io che adoro oziare, ho scoperto che scrivere libri è una vacanza in confronto…. è un’altra forma di angoscia. Un film ti prende a tempo pieno per un anno. Ma è anche un mezzo per uscire dalla solitudine.

 

 

LA SCELTA DEGLI ATTORI

LOUISE BOURGOIN – Alice

«Come con Michel Legrand, la volevo sin dall’inizio. Ma lei è stata difficile da convincere. Ci ho messo quattro anni. Ogni volta, mi diceva che il progetto le piaceva, ma aveva sempre qualcos’altro da fare. Credo anche che bisognasse rassicurarla e, anche se si trattava di un primo film, capiva che avevo già una certa esperienza di palcoscenico. E poi avevamo fatto assieme Le Grand Journal e condividevamo lo stesso humour. Credo che sia stata la mia insistenza ad averla convinta. Lei è stata la mia prima scelta e io sono riuscito a conquistarla per sfinimento. Le donne apprezzano gli uomini che insistono! Sono molto felice del risultato. Secondo me, non c’erano altre attrici francesi in grado di regalare questa performance «alla Cameron Diaz », così divertente, intelligente e sexy allo stesso tempo. Nelle situazioni più buffe sa mantenere una vera eleganza. E sa farci passare dalle risate alle lacrime in pochi secondi».

 

 

GASPARD PROUST – Marc Marronier

«Marc Marronnier mi assomiglia molto. Per scegliere il suo interprete, ho incontrato parecchi attori. Alcuni sarebbero stati anche validi. Ma poi ho visto lo spettacolo di Gaspard Proust e ho fatto la sua conoscenza. Da quel momento in poi, non ho più avuto dubbi. Ero talmente convinto che ho convinto tutti quanti. Artisticamente era una scelta evidente. Sul piano dei finanziamenti, invece, è stato più complicato perché è il suo primo grande ruolo nel cinema. E’ stato necessario convincere i canali televisivi e i finanziatori. Li ringrazio di aver avuto fiducia in noi.

Se mi sono convinto, è perché c’è in quello che Gaspard scrive, una crudeltà, un’eleganza, una comicità fredda che mi ha toccato e mi ha fatto sentire che c’era una vena romantica nascosta dentro a questo apparente nichilista. Senza dubbio scoppierebbe a ridere se mi sentisse. Oppure si metterebbe a vomitare. Ma sono sicuro di avere ragione e questa cosa si vede nel film. Gaspard può diventare una sorta di Hugh Grant o anche di Cary Grant.»

 

JOEYSTARR – Jean-Georges

«È pazzesco che abbia accettato questo ruolo. Ci incrociavamo da diversi anni. Lui mi chiamava «Sua Arroganza». Ci piaceva tirarci delle frecciatine. L’ho conosciuto tramite Maïwenn, un giorno che lei ci ha chiamato entrambi nella sua sala di montaggio per avere il nostro parere su Le Bal des actrices. È là che abbiamo fatto amicizia. Pensavo fosse giusto prendere uno come lui, dal quale non ci aspettiamo assolutamente quello che gli accade alla fine del film. Trovo sempre interessante giocare sull’immagine di un attore. Quest’anno, tra il mio film e Polisse, dove interpreta un poliziotto, si può dire che abbia sperimentato cosa significhi essere un attore, e saper interpretare personaggi diversi! Adoro lavorare assieme a lui, ed essere ricettivo nei confronti di quello che mi propone. È calmo, rispettoso e, allo stesso tempo, è creativo e simpatico. In breve, è l’attore ideale!»

 

JONATHAN LAMBERT – Pierre

«Anche con Jonathan è una storia d’amore che viene da lontano. Assieme abbiamo fatto una trasmissione su Canal +, L’Hyper Show, che ha fatto parte di quella serie di tentativi che hanno preceduto la creazione di Grand Journal. Non l’ha visto nessuno. Lo presentavamo assieme, Jonathan ed io. Quando è stato il momento di trovare il migliore amico per Marc – intrappolato, intellettualoide e un po’ pazzo – ho subito pensato a lui. È nel mio film com’è nella vita, come quando appariva esuberante e trasformista nei suoi sketch da Laurent Ruquier. Nel mio film, volevo che fosse come lo conosco io, un padre di famiglia sposato, affettuoso e fedele.»

 

 

VALÉRIE LEMERCIER – Francesca Vernesi

« Valérie Lemercier è un’amica di lunga data. Il personaggio le piaceva molto e ci siamo divertiti ad affinare i dialoghi assieme per creare una parte su misura. Mi sono ispirato al mio editor Manuel Carcassonne che non mi da mai buone notizie. Ogni volta che gli consegno un manoscritto non dice altro che cose spiacevoli, anche se con molto humour. Credo che a lui piacerà molto vedersi interpretato da Valérie. D’altronde anche lui recita nel film: è lui che consegna il premio letterario Prix de Flore. Ma mi sono anche ispirato a Teresa Cremisi, a Françoise Verny, a Jean-Paul Enthoven… e a me stesso! Adoro gli editor, ho fatto quel mestiere per tre anni.»

 

 

E TUTTI GLI ALTRI…

 

«Sono stato molto fortunato che tutti abbiano accettato. Frédérique Bel (Kathy), sono un fan della sua pazzia da sempre, ed è stato un piacere dirigerla. Lo stesso vale per Elisa Sednaoui (Anne) che ho scoperto nel ruolo della vamp fatale in Bus Palladium. Trovavo interessante che Marc divorzi da una donna molto, molto bella. Mi piace l’idea che possiamo stare assieme a qualcuno di sublime, e che nonostante ciò la relazione non funzioni, proprio perché è troppo perfetta. È questo che ho cercato di esprimere nel montaggio dei titoli di testa, che spero siano commoventi. Sono ugualmente molto fiero che Nicolas Bedos faccia il suo debutto nel cinema nel mio film, lo trovo eccellente in questo piccolo ruolo (il marito che viene mollato), anche lui mi ha fatto morire dal ridere.

E poi ci sono gli attori che ho sempre amato. In particolare nei film di Pascal Thomas e di Yves Robert, dei quali ho sempre apprezzato la forza espressiva e il piacere delle parole. Non è stato altro che un omaggio ma anche un piacere egoista, la  gioia del revival, della nostalgia di un cinema «vintage». È così che ho scelto Christophe Bourseiller e Anny Duperey, reduci da Certi Piccolissimi Peccati. E poi, per il ruolo del padre di Marc, Bernard Menez, l’eroe di Chaud Lapin di Pascal Thomas, era perfetto!

Ho sempre trovato un po’ fastidiosi i cineasti  che vanno incessantemente in estasi nelle interviste «Ah che fortuna che ho avuto a lavorare assieme a questo o a quello». Beh, oggi, anche io lo dico, e in tutta franchezza non mi capacito della fiducia che tutti questi geniali attori e attrici hanno riposto in me. Voglio che sappiano che la mia gratitudine è infinita»