“Lei mi parla ancora” – L’8 febbraio in prima assoluta su Sky Cinema ore 21.15. Disponibile anche on demand e in streaming su NOW TV

Un film di
PUPI AVATI

con
RENATO POZZETTO, FABRIZIO GIFUNI
STEFANIA SANDRELLI, ISABELLA RAGONESE
ALESSANDRO HABER, LINO MUSELLA, CHIARA CASELLI
GIOELE DIX, SERENA GRANDI

 

prodotto da Antonio Avati, Luigi Napoleone, Massimo Di Rocco
e Vision Distribution
in collaborazione con Duea Film

con il sostegno della Regione Emilia-Romagna

Liberamente tratto dal libro “Lei mi parla ancora” di Giuseppe Sgarbi

L’8 febbraio in prima assoluta su Sky Cinema ore 21.15.
Disponibile anche on demand e in streaming su NOW TV

 

 

SINOSSI

Nino e Caterina sono sposati da sessantacinque anni e si amano profondamente dal primo momento che si sono visti. Alla morte di Caterina, la figlia, nella speranza di aiutare il padre a superare la perdita della donna che ha amato per tutta la vita, gli affianca un editor con velleità da romanziere per scrivere, attraverso i suoi ricordi, un libro sulla storia d’amore fra Nino e Caterina.

Amicangelo, scrittore che ha alle spalle un divorzio costoso e complicato, accetta il lavoro solo per soldi e si scontra immediatamente con la personalità di Nino, un uomo profondamente diverso da lui.

Ma, poco a poco, Amicangelo riuscirà ad entrare nel mondo di Nino fatto di ricordi vividi e sentimenti pulsanti. Nino, anche dopo la scomparsa dell’amata Caterina riesce ancora a comunicare con lei, a sentirla accanto a sé ogni giorno. Amicangelo si avvicinerà sempre di più al mondo ricco di pensieri, di amore, di emozioni che Nino tenta di conservare gelosamente.

Nascerà così tra i due uomini una complicità sincera che porterà Nino a fidarsi del suo editor e a raccontargli i suoi pensieri più profondi. Amicangelo, dal canto suo, imparerà quanta ricchezza nella vita di un uomo può portare un sentimento così profondo e inattaccabile.

 

NOTE DI REGIA

Lei mi parla ancora è una storia che si fonda sull’assenza, nella convinzione che non esista chi è più presente dell’assente. L’assente della nostra storia si chiama Caterina Cavallini. A ottantanove anni, la gran parte dei quali trascorsi accanto al suo sposo Giuseppe Sgarbi, ha lasciato il mondo. Questo l’incipit del romanzo rievocativo del loro lungo matrimonio che lo stesso Sgarbi scrisse coadiuvato da Giuseppe Cesaro, un ghost writer romano. E questo è anche l’incipit del mio film che tuttavia anziché illustrare gli eventi rievocati in quelle pagine, indugia su “come” quel romanzo fu scritto. Sull’incontro fra due uomini di età, cultura, visione della vita, diametralmente opposti.

Così, senza tradire in alcun modo lo struggimento che produce l’opera letteraria, sono riuscito a far diventare questo racconto cosa mia portando la cinepresa nel back stage di questa fucina creativa.

E l’ho fatto conducendo nei luoghi a me cari, in quel territorio dell’anima che è la bassa padana, un gruppo di attori in gran parte nuovi al nostro cinema, attori coi quali avrei voluto da tempo lavorare, attendendo l’occasione giusta. Da Fabrizio Gifuni a Stefania Sandrelli, da Isabella Ragonese a Lino Musella, Nicola Nocella e Joele Dix. Attori che sono andati ad aggiungersi a interpreti già di famiglia come Chiara Caselli, Alessandro Haber e Serena Grandi. Chi probabilmente rende ancora più incuriosente questo cast è di certo Renato Pozzetto, attore comico celeberrimo, chiamato a una prova d’attore agli antipodi di quel cinema che gli ha dato un così vasto successo.

Raccontando la storia d’amore di Giuseppe Sgarbi credo di aver raccontato una storia universale, nel momento della sua rendicontazione, quando l’intero percorso è alle spalle e ti trovi all’improvviso solo. Quella compagna di viaggio con la quale hai spartito ogni istante, con la quale hai riso e urlato, che hai amato e odiato, quell’essere che ti ha visto in tutte le stagioni, al tuo meglio e al tuo peggio, quell’hard disk che contiene tutte le immagini della tua vita, se ne è andata. E allora il solo modo per non rassegnarsi alla sua assenza e’ nel continuare a parlarle, ricostruendo con sacralità ogni istante della loro unione.

Al concludersi della storia abbiamo voluto, considerata la passione letteraria di chi è rimasto solo, evocare Pavese con una riflessione riguardante l’immortalità: “L’uomo mortale, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”.

Pupi Avati

NOTE DI SCENEGGIATURA

Un autore sa scrivere una sua storia come se fosse la storia di chiunque altro. E la storia di chiunque altro come se fosse propria…

La prima parte di questo assioma risulta piuttosto semplice: consiste sostanzialmente nel raccontare quel che si conosce bene, e nel farlo in modo talmente onesto che chi legge (o guarda il film) finisce con l’identificarsi in te. È la seconda parte che, a volte, può risultare più complicata.

Scrivere la storia di qualcun altro come se fosse la tua…  Quando lo si fa si ha soprattutto la tentazione di essere religiosamente fedeli ai fatti accaduti, a volte anche troppo, e si finisce col dimenticare che ciò che si sta creando è un prodotto di fiction, un film, e che dovrebbe più di ogni altra cosa intrattenere. Scrivere un film da un romanzo poi è ancora più arduo. Un libro ha infatti sempre già una sua anima dentro di sé, e una sua identità, e volerne trarre un lungometraggio rappresenta inevitabilmente una sorta di violazione di quella precisa identità.

Quando mi accingevo ad affrontare Lei mi parla ancora ero doppiamente preoccupato: dovevamo raccontare una storia vera che era per di più un bel romanzo. Ricordo che lessi il libro con apprensione, prendendo lentamente dimestichezza con quei personaggi e con quelle vicende ma sempre con la sensazione crescente di profanare un territorio altrui. Un territorio peraltro sacro – quello di Giuseppe Sgarbi – che proprio per questo però meritava di essere divulgato anche attraverso le immagini. Iniziammo allora a lavorare allo Script cercando di immaginare una chiave che trasformasse quel racconto in una sceneggiatura. Il romanzo di Sgarbi si poggia su una narrazione ricca e articolata e per certi versi ha già una struttura filmica in tre atti. Ma noi avevamo bisogno di qualcosa di più, ci serviva un elemento che lo rendesse ancora più cinematografico. Lo trovammo, ci è sembrato, nel personaggio di Fabrizio Gifuni, e nella sua travagliata vicenda personale che si intrecciava in maniera armonica ed omogenea con la vicenda del protagonista. I miei timori, poco alla volta, stavano cominciarono ad allentare la morsa. Mi accorgevo che strutturando la sceneggiatura, l’anima di quel racconto così intimo in cui l’autore si era messo a nudo in modo così disarmato, rimaneva ben visibile in filigrana. Il senso ultimo e profondo del romanzo insomma rimaneva impresso in chi leggeva la sceneggiatura nonostante la storia fosse stata in qualche modo ripensata. E se quel senso profondo rimaneva fortemente impresso era perché lo avevamo fatto nostro, ci eravamo identificati intimamente con esso. Insomma forse ci eravamo riusciti: avevamo scritto la storia di un altro come se fosse stata nostra…

Tommaso Avati

 

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