11 Maggio SPECIAL FORCES – LIBERATE L’OSTAGGIO Intervista al regista
CAST
Diane Kruger Elsa
Djimon Hounsou Kovax
Benoît Magimel Tic Tac
Denis Ménochet Lucas
Raphaël Personnaz Elias
Alain Figlarz Victor
Marius Marius
Mehdi Nebbou Amin
Raz Degan Ahmed Zaief
Tchéky Karyo Admiral Guezennec
CREW
Diretto da Stéphane Rybojad
Sceneggiatura originale Stéphane Rybojad
Adattamento e dialoghi Stéphane Rybojad & Michael Cooper
In collaborazione con Emmanuelle Collomb
Musiche originali Xavier Berthelot
Direttore della Fotografia David Jankowski
Suono Arnaud Lavaleix, Benoît Hery & Cyril Holtz
Editing Stéphane Rybojad & Erwan Pecher
Sceneggiatura Christophe Jutz
Produttori Thierry Marro, Benoît Ponsaillé, Stéphane Rybojad
Sinossi
Afghanistan: la corrispondente di guerra Elsa Casanova viene presa in ostaggio dai talebani. Per evitare la sua imminente esecuzione, viene inviata un’unità delle forze speciali per liberarla.
In alcuni dei paesaggi più mozzafiato del mondo ma ancora pieni di ostilità, si dà inizio a una ricerca incessante tra i rapitori che non hanno alcuna intenzione di lasciarsi sfuggire la loro preda e un gruppo di soldati che rischiano la vita per raggiungere il loro unico scopo: portarla a casa viva. Una donna forte, indipendente e un gruppo di uomini d’onore messi insieme e costretti ad affrontare situazioni di grande pericolo, legati indissolubilmente in modo emotivo, violento e intimo…
STÉPHANE RYBOJAD - REGISTA
Sei noto come regista di documentari televisivi. Che cosa ti ha spinto a dedicarti al cinema?
In realtà, ho cominciato con i film e ho sempre voluto fare questo genere di film. All’età di 13 anni, ho cominciato a girare cortometraggi su Super 8 – devo averne fatti più di 200 – quindi mi sono spostato sui “veri” corti in 35 mm, di cui ne ho girati quindici. Nell’età dell’adolescenza, avevo due sogni: fare film e diventare il capitano di una nave. Pensavo che per essere il capitano di una nave, si doveva conoscere tutto: la stanza dei motori, la radio, il ponte, ecc. Per quanto riguarda fare film, avevo la stessa idea: volevo sapere, capire e controllare tutto. Volevo imparare il mio mestiere fin nel più piccolo dettaglio. Ho portato a termine il mio primo lavoro all’età di 16 anni. Sono stato macchinista, elettricista, assistente all’operatore di ripresa e così via. Ho avuto una breve esperienza in televisione per guadagnarmi da vivere e per finanziare i miei cortometraggi. E ancora una volta, ero elettricista, operatore di ripresa, addetto alla messa a fuoco, ecc. Un giorno, mi sono trovato a fare registrazioni di concerti e spettacoli in prima tv e ho anche diretto video musicali e pubblicità. Ma non ho mai perso di vista il mio obiettivo, il grande schermo. Ho scritto alcuni lungometraggi che ho provato a mettere insieme, ma c’era sempre qualcosa che mi impediva di portarli a termine. Non era il momento giusto. Nel frattempo, ho ricevuto offerte per film che sistematicamente rifiutavo perché non erano il mio genere. Non riuscivo ad abituarmi all’idea che avevo intenzione di cominciare la mia carriera cinematografica con produzioni cinematografiche puramente commerciali. Poi un giorno, ti ritrovi a quarant’anni e dici a te stesso: ‘non ho intenzione di cambiare adesso’. Così sono rimasto nel mio ambito.
Quindi come sei arrivato a specializzarti nei documentari?
Undici anni fa ho fondato la società di produzione Memento con un amico, Thierry Marro, per fare il tipo di programmi TV che ci interessava. E naturalmente abbiamo iniziato a fare documentari che trattavano quel genere di cose che amavamo, incontrando il genere di persone che ci incuriosiva e affascinava. Mi piace fare le immersioni, ho fatto un po’ di paracadutismo, mi piacciono gli sport estremi. Così abbiamo fatto una serie sui lavori ad alto rischio — astronauti, subacquei con gli squali, ragazzi che costruiscono edifici con impalcature di bambù, piloti da caccia, equipaggi sottomarini, i paramedici in lontane parti dell’Africa e così via. Tutti i lavori molto diversi, che coinvolgevano personaggi molto diversi, ma tutti avevano in comune una sorta di serenità, un certo appeal e molta gentilezza. A Thierry piace cucinare, così ci siamo dedicati ai grandi chef del mondo. Abbiamo iniziato così. E poi, mentre giravamo documentari, abbiamo fatto alcune più approfondite indagini che hanno portato a girare qualche film. Con la nostra prima serie sui lavori ad alto rischio, abbiamo lavorato con il Ministero della Difesa. Quando ero giovane, ero non ero proprio un appassionato dell’arma – anzi. Ma poi ho scoperto un universo fantastico, poco conosciuto e incompreso: persone interessanti che certamente amano l’azione, ma che sono tutt’altro che bellicose; uomini con valori veri — solidarietà, servire il loro paese, un senso del dovere, sacrificio anche — e che operano in un universo che non si basa sull’individualismo ma sul gruppo.
Ed è qui che vi siete imbattuti nelle forze speciali?
Sì. Nel 2005, ho diretto il primo documentario, che rimane ancora l’unico, sulla struttura di comando delle Forze Speciali, che governano 3.000 persone dell’esercito francese. Ma è stato il culmine di un lungo viaggio. Non è stato semplicemente passeggiare in un mondo protetto dal segreto militare, e che è per necessità estremamente chiuso. Le operazioni sono molto precise, spesso insolite, e solitamente top secret. Le pubbliche relazioni non sono di casa. È più una questione di riservatezza, riservatezza, e ancora riservatezza. La maggior parte delle persone che li incontrano, e anche quelli che li conoscono come amici, non sanno quello che fanno – anche per assicurare che essi e le loro famiglie non siano sottoposti a pressione. A seguito di questo, naturalmente, mi sono interessato a questi giovani di circa 20 anni di età che si offrono volontari per far parte di queste forze speciali. Mi chiedevo cosa spingesse questi ragazzi a farlo, ciò che li motiva. Raggiungono la maturità operativa intorno all’età di 30 anni, il che significa che per dieci anni affinano la loro capacità, formazione e apprendimento in modo continuo, finché un giorno sono effettivamente coinvolti nelle operazioni più sensibili e ad alto rischio. Devono sottostare a un allenamento molto duro, con un processo di selezione spietata. Proprio in questo periodo ho incontrato Marius, un istruttore. Questo personaggio pittoresco era infatti uno dei capisaldi del mio progetto dal momento in cui ho cominciato a pensare a un film su questo argomento.
In quale momento hai pensato di avere del buon materiale per una storia?
Avvenne gradualmente. Prima di tutto, non c’è giorno che passa in cui non penso al tipo di film che vorrei fare. Poi, c’erano tutti gli ingredienti del genere di film che amo, come Platoon, Black Hawk Down, The Hurt Locker, non politici, ma in realtà basati su eventi attuali, che è raro nel cinema francese: avventura, azione, paesaggi favolosi e forti sentimenti umani. Spettacolo ed emozione.
Sei riuscito ad ideare il punto di partenza per il film abbastanza rapidamente – la missione di una unità di forze speciali inviata per liberare un giornalista presa in ostaggio in Afghanistan?
L’Afghanistan è stata una scelta ovvia. In primo luogo, perché ero un grande fan di Joseph Kessel e dei suoi libri quando ero un adolescente e mi hanno fatto venire voglia di andarci. In secondo luogo, perché è un paese affascinante. Inoltre, Thierry ed io eravamo i primi a trattare la situazione in Afghanistan e ciò che sta accadendo lì per alcuni canali televisivi francesi. Ci volle un po’ per convincerli, ma alla fine ci siamo riusciti. Quando ero ragazzo, l’Afghanistan era in guerra contro i russi e non si poteva andarci. Dopo ci sono stati i talebani, e ora è un paese in ricostruzione.
Per quanto riguarda l’idea del giornalista preso in ostaggio, mi è bastato ascoltare le notizie: i giornalisti sono regolarmente rapiti e presi in ostaggio, questa è una triste verità. Si tratta di una professione che conosco bene. Abbiamo un reparto ‘Notizie’ nella nostra società di produzione. Inviamo i giornalisti ai quattro angoli del mondo, in teatri di guerra come l’Afghanistan, e c’è sempre un momento in cui si è preoccupati per loro. Sono amici, conosciamo le loro mogli, i loro figli, è difficile mantenere la calma e si è sempre felice quando i ragazzi tornano a casa. Mi resi conto che l’ansia di avere giornalisti in luoghi difficili era la stessa delle famiglie di soldati che anch’essi si trovano in paesi difficili. Inoltre, giornalisti e soldati sono obbligati ad essere smart e lavorare in squadra sul campo. Hanno bisogno l’uno dell’altro, anche se le missioni sono molto diverse. Si tratta di due mondi che conosco molto bene. Quindi, tutto questo mi ha portato a fare questo film. Il compito principale delle forze speciali non è, naturalmente, andare a liberare gli ostaggi o i prigionieri, ma hanno l’esperienza più grande, le migliori conoscenze, la migliore preparazione per farlo. Hanno sia le capacità che i mezzi. Ho inventato la storia molto velocemente: “C’è una persona che ha corso dei rischi per fare il proprio lavoro, e altre sei persone, a loro volta dovranno correre dei rischi per salvarla”. Allo stesso tempo, questa storia è vecchia come il mondo, o in ogni caso, antica quanto la letteratura. Sono i sei valorosi cavalieri che salvano la principessa catturata dal Principe cattivo e che, per riuscire nella loro missione, devono attraversare la foresta del male mettendo in pericolo la loro vita. Solo che ho trascritto la storia in un contesto contemporaneo e la foresta del male è diventata l’Himalaya. È come Sentieri Selvaggi, I magnifici Sette. Il racconto di una sfida difficile – una causa persa, anche – che esprime un semplice concetto: il sacrificio. Come i cavalieri antichi, il sacrificio è il lavoro di quei ragazzi “.
Quando hai iniziato a scrivere la sceneggiatura?
Tre anni fa. Mi sono seduto e ho scritto una prima bozza in un colpo solo. Ho ideato i personaggi abbastanza velocemente, traendo ispirazione da alcuni dei ragazzi che avevo incontrato e, naturalmente, anche da quello che avrei voluto essere. Ho cercato di trovare un equilibrio tra compagni e personalità. C’è il veterano, il giovane esordiente, il duro, quello che scoppia per primo, ecc. Poi, naturalmente, ho riscritto il copione quando si è definito maggiormente il progetto. Ho collaborato con una giornalista che lavora regolarmente sui nostri documentari, Emmanuelle Collomb. Lei mi ha aiutato a plasmare la sceneggiatura, renderla più concisa, per dare più profondità al personaggio della giornalista. E proprio alla fine, quando stavamo per iniziare le riprese, ho chiamato un amico sceneggiatore americano, Michael Cooper, per sistemare alcune scene e lucidare il dialogo in inglese, soprattutto per Djimon e Diane.
Hai girato la maggior parte dei film in Tagikistan, che confina con l’Afghanistan, e assomiglia molto a questo paese. La dimensione spettacolare che quei paesaggi danno al film era parte del tuo progetto iniziale?
Assolutamente sì! Anche se tutti – a partire dai miei collaboratori – hanno cercato di dissuadermi a causa delle difficoltà e gli ostacoli che eravamo sicuri di incontrare. Ma era un elemento essenziale del film che avevo sognato. Non riuscivo a immaginare di fare le riprese in Marocco. Non si poteva trovare qualcosa di meglio per mettere gli attori nella giusta mentalità. Ero sicuro che, avvicinandomi il più possibile alla realtà, una volta in mezzo a quei paesaggi e quelle montagne, si sarebbero completamente immersi nella storia e, come la troupe, totalmente fatti trascinati dall’avventura umana che una tale spedizione comporta. Sapevo inoltre che avrebbe ripagato in termini di immagine. Volevo fare qualcosa di spettacolare, ma senza barare. Ero sicuro che in qualche modo, l’avventura delle riprese sarebbe risultata anche nell’avventura del film. Dovevamo assolutamente fare le riprese nell’Himalaya. Ma in Afghanistan, era impossibile a causa della guerra. Lo stesso vale per il Nepal, il Kashmir, il Pakistan e il Tibet, per ragioni diverse. E poi c’è questo piccolo paese, il Tagikistan, l’unico posto dove si può andare verso l’Himalaya su strada. È l’antica Via della Seta, al crocevia tra Cina, Afghanistan e Pakistan. Un paese molto povero e per questo, da allora, la famosa Via della Seta è diventata la via dell’oppio e dell’eroina. A tratti la strada è buona e asfaltata, poi improvvisamente diventa fatiscente, impossibile da percorrere con un camion senza uscire di strada. Per questo è stata una vera avventura. Dove abbiamo girato, tra le catene montuose del Pamir, la gente è molto ospitale e gentile. L’esercito francese si trova a Dušanbe. La capitale del Tagikistan è la base di appoggio dell’esercito francese in Afghanistan. È meno importante in questi giorni, ma funge da scalo per l’aviazione, in particolare per le evacuazioni. Per noi, è stata un’ulteriore sicurezza – anche se abbiamo girato a 20 ore di macchina da Dušanbe. Ben prima delle riprese, nel mese di dicembre, sono andato a girare alcune scene a Kabul e ho trascorso cinque o sei giorni per trovare la location giusta. Volevo vedere se era possibile prendere 65 persone francesi in loco, compresi gli attori. Quando sono tornato, in fondo ero convinto che sarebbe andato tutto bene. Sapevo che sarebbe stato complicato giorno dopo giorno, ma sapevo anche che ne sarebbe veramente valsa la pena perché ogni picco è magnifico, ogni volto che vedete per strada poteva esistere solo lì. Abbiamo girato per cinque settimane in Tagikistan, poi siamo andati per tre settimane a Gibuti per filmare l’inizio dell’avventura e la fine, quando siamo nella bassa valle, e abbiamo finito con una settimana sul Monte Bianco per le scene in alta montagna .
Hai scritto il ruolo del capo dell’unità appositamente per Djimon Hounsou?
No, ma ho avuto l’idea subito dopo aver finito il copione. L’avevo visto in Blood diamond – Diamanti di sangue, in cui pensai fosse incredibile. Sapevo che veniva da Benin e che era arrivato a Parigi all’età di 12 anni e ha avuto un momento difficile, ma cogliendo le sue opportunità e incontrando le persone giuste finì per vivere il sogno americano in tutto il suo splendore. Ha una grande levatura ed è un uomo di vera classe, e mi piace così tanto che volevo davvero essere il primo a offrirgli un ruolo di primo piano in un film francese. È l’attore che sono andato a prendere di persona, e ha dimostrato di essere giusto per il personaggio.
Inoltre, mi piaceva l’idea di rendere lui il leader del gruppo. Leggendo la lista del cast si penserebbe a Benoît Magimel perché è la più grande star francese. Ma così, si crea una sorpresa, si rafforza la credibilità di questo gruppo di uomini. Benoît è stato il primo ad essere sorpreso quando ha letto la sceneggiatura, ma ben presto ha capito che il suo ingresso in scena sarebbe stato ancora più atteso e quindi avrebbe avuto un impatto maggiore. Benoît era ideale per il ruolo di Tic Tac, un personaggio bonario, in superficie molto fresco, ma con una reale tensione interna.
Come hai fatto a mettere insieme il resto del cast?
Oltre a Marius, per il quale ho scritto un ruolo speciale, ho cercato gli attori che avrebbero potuto meglio incarnare ogni personaggio. Il passo successivo è stato quello di scoprire se gli attori stessi erano interessati all’avventura fisica e umana che le riprese comportavano. Dovevano essere pronti a fare 20 ore non-stop in una 4×4, a dormire in yurte, mangiare tutto ciò che era disponibile, salire a 4.000 m di altitudine. Quando ho finito la sceneggiatura, Marius aveva appena lasciato l’esercito, quindi lui era disponibile. Mi chiedevo come avrebbe fatto a reagire in un ambiente professionale che era così diverso da quello che aveva conosciuto fino ad allora. Però, ci conosciamo molto bene, così si è lasciato trasportare dall’avventura. Come professionista delle Forze Speciali, è stato un prezioso aiuto per gli attori durante il periodo di preparazione. E loro, come professionisti del cinema, hanno restituito il favore durante le riprese. Sono andati d’accordo sin da subito! Ho pensato subito ad Alain Figlarz per il ruolo di Victor. È uno stunt professionista ed è un amico. È divertente e affascinante, ed era sempre un buon compagno di viaggio. Ho anche scoperto che la sua immagine da duro, da pugile, diventa un uomo affascinante non appena comincia a ridere, e rafforza l’autenticità e l’umanità del personaggio. Come tutti, mi ha colpito quando ho scoperto Denis Menochet in Bastardi senza gloria. Siamo andati d’accordo sin dal primo momento, e lui ha accettato il ruolo immediatamente. Ha un fisico da giocatore di rugby e uno sguardo infantile, che lo ha reso ideale per Lucas, l’obiettore di coscienza che compie la sua missione, ma che è davvero testardo, in un modo molto francese. Non ama i giornalisti e non ha paura di nasconderlo. È piuttosto immaturo e ha un approccio maldestro alla vita quotidiana, il che non significa che non ha un cervello o un cuore. Anzi, quando li usa, è ancora più commovente. Per il ruolo di Elias, interpretato da Raphaël Personnaz, ho visto un sacco di attori, ma si distinse grazie al suo talento e la giovane età. Ha una scintilla nei suoi occhi. Elias è un cecchino solitario e geniale, è un guerriero poeta, lui è la giovane recluta e rappresenta il futuro. Poi si scopre che nella vita reale, Raphaël è il migliore amico di Denis, e Alain Figlarz è un amico stretto di Benoît, che ha rafforzato i legami tra di loro nel film. C’era qualcosa di naturale che era stato già stato creato, che non ha bisogno di essere interpretato.
Parliamo di Diane Kruger, cosa ti ha fatto pensare a lei?
Avevo già un progetto per lei, quindi è stato naturale pensarci. Ma era un po’ complicato perché era parecchio occupata. Conosco un sacco di corrispondenti straniere, e sono spesso belle donne che non si riesce a immaginarle, quando le vedi a Parigi, essere in grado di vivere da sole dall’altra parte del mondo, indossare jeans e Converse e bere whisky in un bar! Hanno tutte una cosa in comune: hanno una corazza dura, che è ovviamente una sorta di protezione. Sono dure, taglienti come rasoi, ma quando rivelano la loro umanità, sono ancora più forti. Il genere di attrici che mi piace molto: Tippi Hedren e Meryl Streep, a Jodie Foster e Diane Kruger. Bionde con occhi azzurri, un po’ fuori dalla portata, all’apparenza fredde, ma che, una volta che cominciano a rivelarsi, sono ancora più attraenti. Diane è un’attrice straordinaria, ha quella capacità di passare da un’emozione all’altra molto rapidamente, lo trovo affascinante. Può passare dalla risata al pianto in un secondo, otto volte di fila mentre vola in giro in elicottero. Volevo Elsa bella, una ragione in più per cui i ragazzi avrebbero voluto portarla attraverso le montagne. Questo è un fattore. Ma lei non è lì solo perché è carina. Ti rendi conto che ha formato un legame personale con questo paese, si capisce il suo impegno per la causa delle donne afghane e le conseguenze che potrebbero esserci, e la sua amicizia con uno di loro, che spiega che, nonostante i rischi, lei torna non per uno scoop, ma perché sente di avere un debito con queste persone. Inoltre, il suo rapimento non è una questione di soldi e mezzi per esercitare una pressione, ma per il capo dei talebani che la rapisce, è un modo per ottenere una maggiore visibilità. Quindi non c’è molto spazio per la negoziazione, il che spiega il perché delle forze speciali. Lei è una donna che ha carattere, a volte anche il pugno di ferro, in modo che quando non può più trattenere le lacrime, sai che non è una finzione. All’inizio, Elsa pensa: “Va bene, siete venuti a prendere me, ma non ve l’ho chiesto io”. Ma a poco a poco, ostacolo dopo ostacolo, comincia a essere turbata dal senso di colpa. Ho cercato di fare in modo che lei avesse un rapporto diverso con ogni membro della squadra. È il punto cardine del film intorno al quale tutti gli altri personaggi ruotano. È lei che si rivolge a Marius, e che schiaffeggia Lucas prima di stabilire un’amicizia con lui, che ha un inizio di relazione romantica con Tic Tac. Diane impone una certa autorità e, al tempo stesso, scopre il suo lato emotivo, una sensibilità meravigliosa. Durante la scena con la più grande carica emotiva, si lascia sfuggire questo grido che veniva dal profondo, facendo venire i brividi a tutti noi. Quando ha accettato di fare il film, ed eravamo sicuri che poteva farlo, eravamo tutti e due sollevati e contenti.
C’è anche il ragazzo che interpreta il suo fixer e il capo dei talebani, che la insegue.
Come giornalista nel campo, i fixer sono molto importanti. Amin ha senza dubbio una relazione platonica con Elsa, che egli protegge anche in qualche modo. I membri del gruppo diffidano di lui, ma sbagliando si impara. Non sanno davvero chi è, e pensano che potrebbe essere un traditore e fare il doppio gioco. Non lo trattano molto bene, ma lui prende la sua piccola rivincita. In ogni caso, è un uomo con le sue convinzioni e che difende il paese. Mi piace molto quel personaggio, è il contrappunto a Zaief, il capo dei talebani. Mehdi Nebbou era perfetto per il ruolo di Amin. L’ho visto in MUNICH e in tanti altri film. Ha talento da vendere e una buona presenza scenica. Mi piaceva anche l’idea che tra i personaggi e gli attori c’erano alcuni collegamenti occulti: Mehdi e Djimon sono apparsi entrambi in un film di Steven Spielberg, Mehdi, Djimon e Denis hanno recitato in un film di Ridley Scott. Volevo Zaief a cavallo tra due culture come fanno alcuni dei capi tribù, affascinato da entrambe le culture, ma in fondo non appartenenti l’un l’altra. Gente con i soldi, che ha avuto una formazione, spesso in alcune delle migliori scuole inglesi e che fa ritorno a casa e si trova di fronte ad una molto rudimentale e rustica realtà. Di fronte al giornalista, ricorda le sue impressioni come studente in Europa. Egli è affascinato dalla sua bellezza e soggiogato dalla sua forza di carattere, dalla sua libertà, il suo impegno. E lui non sopporta il fatto che sia fuggita da lui, una cosa che prende molto personalmente, fino al punto di impazzire.
È stata Juliette Ménager, il direttore del casting, che mi ha introdotto a Raz Degan, che aveva già scelto in Alexander di Oliver Stone. È impressionante, perché nella vita reale, Raz è ossessivo quanto Zaief. Sulle riprese, ha deliberatamente preso le distanze dagli altri che avevano legato durante il corso di formazione e che avevano subito formato un gruppo attorno a Diane, che ne divenne il leader. Loro sette hanno ingenuamente stabilito dei legami e hanno continuato a vedersi anche dopo la fine delle riprese.
Lei ha parlato di un corso di formazione; hai chiesto loro di fare una preparazione speciale?
È essenziale, sia per il film che per loro. Prima di tutto, per metterli in un contesto e renderli credibili quanto più possibile. Hanno seguito una settimana di corso per Marines a Lorient in Bretagna, dove Marius era stato un inviato. Quando i ragazzi delle forze speciali li videro arrivare, li guardarono come extraterrestri. D’altro canto, gli attori sentivano come se venissero da un altro pianeta. Ma ben presto sono andati tutti d’accordo. Sono entrati subito nello spirito della cosa, hanno capito i meccanismi di solidarietà e il lavoro di squadra. Erano molto curiosi e attenti, e hanno imparato in fretta. Le Forze Speciali si sono sorprese per le loro capacità di assorbire le cose, e la facilità con cui si potrebbe riprodurre il loro comportamento. Più gli attori imparavano, più le forze speciali aumentavano il livello di difficoltà. Fino a quando, il quinto giorno, ho dato loro il via libera per aumentare il livello ancora un po’. Una notte, 20 ragazzi con caschi e cappucci si sono presentati a sorpresa dove dormivano gli attori. Li hanno presi, li hanno trascinati a terra, legato le mani dietro la schiena e lanciato granate stordenti. È stato uno shock. Era solo un modo per dire: “Sono bravi ragazzi, ma non dimenticate che fanno un lavoro piuttosto insolito in circostanze piuttosto inusuali”. Naturalmente, mi hanno tutti odiato per questo e sapevo che stavo correndo un grosso rischio. Ma ci hanno dormito su, e il giorno dopo avevano tutti accettato e capito perché li stavo mettendo sotto pressione.
Diane Kruger ha partecipato al corso?
No, ho tenuto Diane separata dal gruppo fino alle riprese. Diane ha incontrato alcuni giornalisti di alto livello. Ha trascorso tempo ad ascoltare, comprendere le loro motivazioni e il loro stile di vita, parlando con loro e facendo domande.
A che punto siete andati a parlare con l’esercito, e che tipo di supporto hanno dato a questo progetto?
Tutto è venuto del tutto naturale, perché avevamo già fatto documentari sui soldati. In più di un’occasione abbiamo passato diversi mesi con loro. Abbiamo avuto a che fare con il loro comando centrale per alcune situazioni piuttosto complesse, alcuni problemi piuttosto strategici. Abbastanza presto, quelli che conoscevo bene sapevano del progetto e sono stati una grande fonte di consulenza durante la fase di scrittura, fornendo documentazione dettagliata, aiutandomi a capire le situazioni e i comportamenti giusti, e così via. C’era Marius, naturalmente, e anche il colonnello Jackie Fouquereau, che ho incontrato quando era capo del dipartimento Media a Parigi, quando abbiamo fatto il nostro primo film sui mestieri pericolosi, poi uno sulle forze speciali e un altro sull’esercito. Siamo amici da12 anni. Il suo coinvolgimento è stato amichevole prima di diventare ufficiale. Pochi mesi prima delle riprese, il quartier generale lo mandò sul set come nostro consulente militare durante le riprese. Inoltre, conosce bene l’Afghanistan e il Tagikistan perché è stato a lungo in missione in questi luoghi. Prima di partire per il Tagikistan, ha fatto un briefing di sicurezza per il team. Il suo lavoro era garantire una comunicazione con l’esercito e il Ministero della Difesa.
Jackie Fouquereau era il responsabile della sicurezza. Era in contatto con l’ambasciata, con ufficiali dei servizi segreti francesi e afghani, agenti della polizia segreta locale che sono stati incorporati – con la nostra approvazione – nel cast in Tagikistan. Ha inoltre trattato con il generale dell’esercito regolare afghano, che era dall’altra parte del fiume che segna il confine. Era consapevole dei movimenti nella zona e dei possibili rischi. Niente era successo per tre anni, e proprio quando siamo arrivati, 25 talebani fuggirono dal carcere. Così è stato un po’ un pericoloso. Ogni sera, avevamo incontri di sicurezza. Eravamo molto ben protetti, anche dalla polizia locale che ci ha scortati fino in fondo.
Quali erano i rischi?
Tutto era possibile. I talebani potevano venire e rapire realmente Diane. Avrebbero potuto esserci tentativi di estorsione, da parte della mafia locale: ci trovavamo pur sempre sulla via dell’eroina. Detto questo, siamo rimasti molto ben protetti dagli stessi tagiki, che non avrebbero mai lasciato che nulla ci accadesse. Ma la situazione era tesa. Paradossalmente, la mia più grande paura non era questa, ma i piccoli incidenti che in un posto lontano avrebbero potuto mettere l’intera ripresa in pericolo. Il lavoro di Jackie non si è limitato alla sicurezza. Dal momento che conosce bene la regione, anche lui si prese cura di alcuni problemi amministrativi, logistici e di informazione, un po’ come un direttore di produzione. Dopo tutto, c’erano quasi 80 persone della troupe e 40 veicoli, non siamo passati inosservati. Alcuni degli attori lo soprannominarono “Candy” perché era sempre ottimista, qualunque fosse la situazione. Djimon lo chiamava “Master Jackie”. Ha preso parte a casting e formazione delle comparse talebane, molti dei quali non aveva mai tenuto un Kalashnikov in mano in vita loro. E dopo il Tagikistan, partì per Gibuti per preparare la seconda fase delle riprese, dove abbiamo trascorso due settimane molto intense con i militari.
Per questo tuo primo lungometraggio, come avete messo insieme la vostra squadra?
È stato molto semplice: ho mescolato la mia troupe abituale di avventurieri con alcuni professionisti del cinema. Sono tutti miei amici, la maggior parte di essi lo è da 15-20 anni. Sono abituati a lavorare in condizioni difficili, adattandosi alle situazioni più estreme, far fronte al vento, alla neve, alla polvere, alle montagne e il deserto. Abbiamo dovuto cambiare il modo in cui i film normalmente funzionano, e entrare in sintonia con gli elementi piuttosto che cercare di adattarli alle nostre necessità. Questo è ciò che ci ha dato la libertà di movimento una volta a lavoro. Naturalmente, è stata una sorpresa per gli attori più abituati alla struttura, alle regole e al comfort, ma non era male. E li ha resi più vulnerabili. Che cosa meravigliosa, a volte perdere i tuoi attori, per metterli di nuovo in pista, e poi perderli di nuovo! Dopo tutto, il film è la storia di sei ragazzi persi tra le montagne. Cosa si può volere di più di sei ragazzi realmente persi tra le montagne?
In questo film, il confine tra realtà e finzione è a volte molto fragile. Questo è in qualche misura ciò che cercavo. Altrimenti, qual è il punto di andare nell’Himalaya? Qual è il punto di fare 3.500-4.000 m a piedi fino ad arrivare dove l’ossigeno è più rarefatto? Qual è il punto di metterli in mezzo a soldati delle Forze Speciali? Qual è il punto di portare in tempo reale materiale militare, roba pesante, non oggetti di scena del cinema? Non sto dicendo che è stato tutto facile. Come in tutte le avventure estreme, ci sono stati momenti di conflitto, momenti di dubbio e momenti di euforia e di esaltazione. Hanno trovato tutto abbastanza duro ma credo che questo si rispecchi anche nel film, si può sentire, e nutre la veridicità del film. In ogni caso, ciascuno ha avuto una potente, intensa e unica esperienza personale.
Quale sarà il tuo ricordo più duraturo di questa avventura?
La scena in cui Elias affronta i Talebani da sola, coprendo i suoi compagni. Quando facevamo scouting, ho subito notato questo grande altopiano. Era esattamente quello che avevo in mente quando ho scritto la scena. Il giorno delle riprese era un po’ complicato, soprattutto perché a quel tempo il sole – che era la nostra unica fonte di luce – tramontava alle 3.30 del pomeriggio. E come se non bastava, pioveva. Abbiamo detto che avremmo finito la scena il giorno successivo. Ma avevamo già avuto un carico di lavoro pesante per quel giorno. Rimanevano ancora cinque giorni di riprese in Tagikistan e ogni giorno, rimandavo, sapendo che stavo correndo un rischio. Alla fine, abbiamo girato la scena l’ultimo giorno, con l’ultima mezz’ora di sole rimasta. La scena è stata complicata, perché dovevano girare una scena a sequenza, Raphaël doveva correre, parare, simulare di prendere un colpo, rotolare nella sabbia, di nuovo sparare, alzarsi, correre e poi crollare. Sentivo che era pronto, che era l’uomo del momento, era come Zidane prima di segnare un gol. È stato incredibile, davvero magico. Lo sguardo sul suo volto quando si è alzato ci ha fatto venire la pelle d’oca. Questo è il momento che ricorderò per sempre perché simboleggia tutto il film, tutte le riprese. Quella sensazione di una meta raggiunta, di una grande partita. È stata una tale gioia vivere quei momenti intensi che, se dovessi rifare tutto di nuovo, non cambierei proprio nulla. Prenderei gli stessi rischi, quei rischi cumulativi che, messi insieme, danno vita a grandi momenti.
Stéphane RYBOJAD è regista da più di 20 anni. Ha diretto numerose pubblicità, video musicali e cortometraggi pluripremiati nel circuito dei festival. Fino al 2000, ha anche diretto spettacoli TV di successo e ha contribuito al rinnovamento artistico del genere.
Il suo lavoro come regista lo ha portato a dirigere e produrre più di 100 documentari vincendo anch’essi diversi premi. Il suo approccio originale, il suo modo inventivo di raccontare la storia, le sua riprese al centro dell’azione e le sue indagini giornalistiche hanno portato i suoi film ad apparire su National Geographic, BBC, ZDF e Discovery Channel.
Attraverso i suoi film, Stéphane raggiunge un vasto pubblico, grazie ai soggetti universali come il traumatismo haitiano, la povertà estrema (in collaborazione con l’ONU), la cyber-criminalità, il traffico di droga, le guerre in Bosnia, Medio Oriente e Afghanistan e lavori ad alto rischio. Ha anche affrontato temi più specificamente francesi come le miniere d’oro illegali nella Guyana francese, il docu-fiction sullo sbarco in Normandia e le operazioni delle forze speciali in Afghanistan.
È stato quest’ultimo che lo ispirò a scrivere la sceneggiatura di SPECIAL FORCES. Ha una conoscenza quasi intima del soggetto. L’attenzione che dà in supporto ai personaggi è a volte intransigente, ma sempre ben intenzionata. L’originalità del suo approccio e delle sue opere ci ha convinti a produrre il suo primo lungometraggio drammatico. Per Stéphane, realizzare filmati significa dare al pubblico uno spettacolo realistico ricco di emozioni.
INTERVISTA A DIANE KRUGER
Che cosa ti ha spinto verso questo progetto?
Il soggetto del film, l’idea della vera avventura che avrebbero richiesto le riprese; la dedizione di Stéphane e la sua voglia di fare qualcosa di più di un semplice film d’azione. Sono stata anche attratta dal carattere di questa giornalista. Ho fatto molte ricerche e ho incontrato tante di queste donne eccezionali. Sono rimasta impressionata dal loro impegno, soprattutto in paesi come l’Afghanistan. Sono costantemente obbligate a negoziare. Sono temerarie e al tempo stesso vulnerabili. Può essere piuttosto difficile per loro, ma sono sempre pronte a tornare nella mischia.
Come definiresti il tuo personaggio?
Elsa è un giornalista. È determinata, ma al tempo stesso, crede che andando là fuori, in qualche modo possa cambiare il mondo con il suo lavoro, in particolare contribuendo a liberare le donne afghane. Ma poi si rende conto che non è affatto così. È un po’ stanca di questa lotta senza speranza. E allo stesso tempo, non chiede a nessuno di venire salvarla. Così, all’inizio, tiene le distanze dagli uomini di questa unità di comando. Poi, a poco a poco, quando capisce la portata del loro impegno, il loro senso del dovere e del sacrificio e il loro coraggio, si rende conto che sono tutti nella stessa barca. Le loro relazioni vengono via via definite, e variano da un personaggio all’altro.
Come descriveresti Stéphane Rybojad?
Molto avventuroso, intrepido, una persona che ama l’adrenalina, e la cerca continuamente. È appassionato del suo soggetto, il film che sta facendo, ed è costantemente alla ricerca della verità. Lui è molto istintivo e confida sempre nella situazione.
Se si potesse avere un solo ricordo di questa avventura, quale sarebbe?
Abbiamo vissuto delle esperienze sorprendenti. Non è stato sempre facile, perché le condizioni di lavoro erano particolarmente difficili. Ricorderò per sempre i momenti in cui sono rimasta stupita dalla bellezza mozzafiato dei paesaggi in cui stavamo girando, paesaggi che di solito sono impossibili da vedere o addirittura vietati. Anche i momenti in cui mi sono trovata da sola nel deserto di Gibuti. È stata un’esperienza del tutto unica.
INTERVISTA A DJIMON HOUNSON
Che cosa ti ha spinto verso questo progetto?
In primo luogo, e soprattutto, volevo fare un grande film in Francia. Ma i registi francesi raramente affrontano film come questo, in particolare su tale scala. Le persone dicono sempre che i francesi sono riluttanti a mostrare le potenzialità delle loro forze armate sullo schermo. E quasi senza rendersene conto, questo film sottolinea anche la Francia, i problemi di integrazione di una popolazione straniera molto diversificata, inclusi i cittadini provenienti dalle ex colonie francesi e gli immigrati provenienti
da tutto il mondo.
Come definiresti il tuo personaggio?
Un soldato con il senso del dovere e dell’onore. Nonostante molte altre complessità inerenti al personaggio, alla fine, emerge un uomo che ha servito il suo paese e combattuto per i suoi fratelli.
Come descriveresti Stéphane Rybojad?
Stéphane è una persona che sa esattamente quello che vuole. È un maniaco del lavoro con il desiderio incessante di creare, e ottiene sempre i frutti del suo sforzo.
Se si potesse avere un solo ricordo di questa avventura, quale sarebbe?
Il momento che mi ha più segnato è stato quando siamo arrivati in Tagikistan, l’esperienza che ti cambia la vita per la maggior parte di noi. Siamo atterrati in Tagikistan, siamo saliti su un minibus e alcuni camion e abbiamo iniziato un viaggio di 20 ore tra scogliere a picco e montagne pericolose, prima di arrivare al luogo in cui si sarebbero svolte le riprese, in alto sulle montagne, dove saremmo rimasti per un mese. Una sfida di vita o di morte come questa è difficile da esprimere a parole, ma le persone che erano lì non la dimenticheranno mai.
INTERVISTA A BENOIT MAGIMEL
Che cosa ti ha spinto verso questo progetto?
L’avventura di lavorare su un progetto insolito. Essere in grado di girare a miglia lontano da casa in un paese dove probabilmente non sarei mai andato. Il viaggio era un’avventura in sé. È una regione a un bivio, dove mondi diversi si incontrano – l’Himalaya, l’Afghanistan, la Cina e il Tagikistan. Semplicemente parlare di quei luoghi dà il gusto per il viaggio. Ero curioso di vivere un’avventura come quella. Sono state semplici riprese, ma al tempo stesso, era una spedizione verso l’ignoto.
Eravamo circondati da uomini armati, uomini della polizia russa e francese in incognito tra il cast, e stavamo girando a soli dieci metri dal confine con l’Afghanistan, sotto la protezione dell’esercito francese. Abbiamo viaggiato per nove ore su un aereo appositamente noleggiato e poi dieci ore d’auto per raggiungere questo posto in mezzo al nulla. Quando si accetta di fare questo tipo di film, deve essere parte di un’avventura più personale, altrimenti non lo faresti. Il primo giorno, mi sono trovato in un campo minato. Per un paio di minuti mi sono chiesto cosa diavolo ci facessi lì, ma ho solo dovuto aprire gli occhi e guardarmi intorno, il paesaggio ha fatto il resto.
Inoltre, abbiamo fatto una settimana di addestramento che ho trovato davvero motivante. Essere ammessi in un mondo segreto era affascinante. E poi, il personaggio di Tic Tac era come nessun altro ruolo da me interpretato nei film fino a quel momento. E il cast era eclettico e attraente: Djimon, Diane, il mio amico Figlarz, Raphaël, Denis e Mehdi, senza dimenticare Marius, la cui presenza ha davvero aggiunto autenticità ai personaggi.
Infine, sono stato attratto dall’entusiasmo di Stéphane Rybojad – mi è bastato sentirlo parlare del suo film e delle complicate condizioni di ripresa, anche pericolose, per capire che volevo fare questo film. Tutto questo, più la sua forza di convincimento, era difficile dire no!
Come definiresti il tuo personaggio?
Tic Tac è il più tranquillo dell’unità. Gli ho dato un passato doloroso di cui evita di discutere. Non drammatizza mai i momenti difficili che vivono. Non c’è molto spazio per esplorare la psicologia dei personaggi in questo genere di film. I personaggi sono messi in evidenza durante l’azione e le situazioni estreme che si trovano a vivere.
Come descriveresti Stéphane Rybojad?
Stéphane è un avventuriero. Ama viaggiare. Mentre tutti gli altri stavano avendo momenti difficili, lui era a suo agio. Potrebbe tranquillamente essere un corrispondente di guerra o anche in una unità di comando, dato il fascino e il rispetto che ha per questi uomini. Più dure sono le condizioni di ripresa, più lo ama. La sua calma, pazienza e resistenza semplicemente meritano rispetto. Si prende sempre il tempo di parlare con chi ne ha bisogno. Un regista sul set deve rispondere a centinaia di domande su base quotidiana, ma con questo film, tutto è stato moltiplicato per dieci. Eppure, nonostante queste difficoltà, Stéphane era sempre disponibile. E sempre rassicurante.
Se si potesse avere un solo ricordo di questa avventura, quale sarebbe?
Il passaggio brutale tra Tagikistan, Gibuti e il ghiacciaio Chamonix. Siamo passati da +35°C a -20°C, senza il tempo di riprendere fiato. Dopo tutto quel tempo a morire di caldo nei nostri abiti da scena, ci siamo trovati con le nostre tasche piene di scaldamani per combattere il freddo. I paesaggi mi hanno lasciato il più imponente ricordo. Ma la cosa che non dimenticherò mai è Marius nella sua uniforme militare bianca, che cammina nella neve a -20° C, mentre i fiocchi di neve e il vento gli bruciavano la faccia. Questo è ciò che Kovax vede nel film, ma vederlo, viverlo in prima persona è stato stupendo. Il contrasto sembrava irreale e il tempo sembrava essersi fermato fino a quando il fatidico “Cut!” di Stéphane risuonò.
INTERVISTA A DENIS MENOCHET
Che cosa ha ti spinto verso questo progetto?
Mi piaceva la sceneggiatura, ho pensato ci fosse una grande attenzione ai personaggi. Mi piaceva perché era il genere di film che non si vede spesso in Francia. Inoltre, Stéphane mi ha detto che Djimon Hounsou partecipava al progetto e lui è una persona che ho sempre ammirato e il cui lavoro ho davvero amato. L’idea di recitare al suo fianco è stato per me un vero richiamo. Inoltre, c’era l’avventura delle riprese. Era una vera sfida dirigersi verso l’Himalaya in tali condizioni realistiche – una sfida e un’opportunità perché non capita tutti i giorni di avere la possibilità di sperimentare questo tipo di avventure, anche nel nostro lavoro. Solo questo era una ragione sufficiente per fare il film. Sono il tipo di persona che ama la preparazione e il lavoro, così l’idea di fare un corso di formazione con il Comando della Marina a Lorient era anche molto attraente. Ho pensato che era indispensabile. Se non sai come comportarti come loro e non capisci come operano, non ha alcun senso.
Come definiresti il tuo personaggio?
È una persona con molti dubbi e fa sempre commenti intelligenti su tutto. È un diamante grezzo, con un cuore d’oro. Vuole fare il suo lavoro in modo assolutamente perfetto, nel modo in cui gestisce le armi per esempio, in modo che possa dire la sua quando vuole. E non si tira indietro. È l’unico membro della squadra meno entusiasta della missione che è stata loro assegnata perché non ama molto i giornalisti. Ma al tempo stesso, lo fa al meglio delle sue capacità e lo farà fino alla fine, amara, come tutti gli altri.
Come descriveresti Stéphane Rybojad?
È semplice. È un One-Man Army.
Se si potesse avere un solo ricordo di questa avventura, quale sarebbe?
Ce ne sono così tanti. Ho un sacco di ricordi incredibili con persone diverse, ma il migliore è stato quando il cast e la troupe erano insieme alla fine delle riprese in Tagikistan, quando siamo arrivati in aereo e abbiamo attraversato l’Himalaya, mentre nel viaggio di andata, avevamo fatto un viaggio di 20 ore in auto. Infatti, proprio fino all’ultimo minuto, non eravamo sicuri che saremmo stati in grado, eravamo stanchi e stressati. Poi, quando ci siamo ritrovati tutti sull’aereo, a volare al di sopra di quelle enormi, maestose montagne, è stato magico. Era come se stessimo levitando. E ‘stato un momento unico. L’occasione di una vita.
INTERVISTA a RAPHAEL PERSONNAZ
Che cosa ti ha spinto verso questo progetto?
L’interpretazione del regista della storia e la dimensione umana che ha voluto metterci – qualcosa che non si percepisce chiaramente nella sceneggiatura, ma Stéphane ha veramente insistito quando ci ha parlato del progetto. Con il suo passato nel mondo dei documentari e la sua familiarità con questi ragazzi delle forze speciali, Stéphane stava rendendo omaggio a questi uomini e non necessariamente all’istituzione a cui appartengono. Il suo desiderio di autenticità era anche molto attraente. E lavorare così vicino all’Afghanistan in condizioni molto simili alla realtà è stato anche molto emozionante . Non è una situazione che si incontra molto spesso in questo lavoro. Era un sogno fare un film con questo livello di ambizione. E al di là del film stesso, è stata la vera avventura che stavo per provare che realmente mi piaceva e non mi ha deluso.
Come definiresti il tuo personaggio?
È la sua prima missione sul campo. Elias ha tutto da dimostrare. È responsabile della sicurezza del gruppo, deve vegliare costantemente su di loro, ma lui è sempre nascosto, in agguato in un angolo da solo. È quasi certamente troppo innocente e troppo giovane per affrontare la violenza della realtà. Non ha alcuna prospettiva e prende ogni situazione di petto. A differenza dei suoi compagni, è in grado di stabilire la distanza critica di cui ha bisogno tra sé e la violenza di ciò che sta vivendo. Ha un senso del sacrificio – probabilmente troppo. Questo è quello che mi piaceva – tale diniego, il silenzio e il mantenere sempre la guardia. Nella migliore delle ipotesi, questo personaggio avrebbe dovuto essere praticamente invisibili. Questa è stata la difficoltà – farlo esistere nonostante la sua discrezione e abnegazione. A mio avviso, il vero personaggio è il gruppo perché ciascun membro deve essere cancellato per il bene della squadra e della missione che deve compiere. È come una compagnia teatrale che mette in scena una commedia o una squadra di rugby in cui lo sforzo collettivo è quello che conta. Se si comincia a parlare di stelle all’interno di questo gruppo, si può essere sicuri che il fallimento sarà l’unico risultato. E non dimenticate che abbiamo girato questo film subito dopo l’eliminazione della Francia dalla Coppa del Mondo 2010 in Sud Africa, così abbiamo avuto l’esempio perfetto di cosa non fare esattamente.
Come descriveresti Stéphane Rybojad?
Reticente, perseverante e seducente.
Se si potesse avere un solo ricordo di questa avventura, quale sarebbe?
Ancora una volta, era tutto sulla reale avventura e quel viaggio in Tagikistan che ha portato con sé una dose giornaliera di emozioni potenti, brutali e meravigliose allo stesso tempo. Sicuramente custodirò il ricordo di un momento condiviso con la troupe e gli abitanti del piccolo villaggio della catena montuosa del Pamir. L’accoglienza, le loro facce segnate da quattro decenni di guerra, i sorrisi dei bambini, gli occhi degli anziani, la nostra innocenza e la nostra impotenza di fronte a tutto questo. Quel giorno, tutti noi abbiamo messo giù le armi.
INTERVISTA AD ALAIN FIGLARZ
Che cosa ti ha spinto verso questo progetto?
Un regista appassionato e determinato, completamente immerso nel suo soggetto e una solida sceneggiatura che racconta qualcosa di diverso dalla solita punizione vista nei film di guerra. Una storia potente, con personaggi e relazioni reali basate su amicizia e solidarietà. Fratelli di armi che svolgono la loro missione dall’inizio alla fine, indipendentemente dal prezzo che devono pagare. Anche mettere in luce il pazzo mondo delle Forze Speciali. Da civile, non ci si rende conto che esistono persone come queste, che rischiano la loro vita per salvare la nostra. Conosco vigili del fuoco e operatori di soccorso e altre unità di operazioni speciali, ma le forze speciali sono un’altra cosa. Solitamente non sono una persona molto militarista, ma è bene far conoscere alla gente l’esistenza di questo Special Forces. In Francia, siamo molto timidi nel parlare di un corpo di elite, mentre in tutti gli altri paesi, non hanno problemi a farne dei film. Questo è un altro dei punti di forza di Stéphane – affrontare un tema che non è mai stata esplorato nel cinema francese. Lo conosco da molto tempo, ho seguito la sua carriera e il suo lavoro e sono stato colpito dai suoi documentari. Ero ancora più felice quando mi ha proposto questo ruolo, in particolare essendo uno che lavora principalmente nella coreografia stunt e nel coordinamento. Inoltre, la prima volta che abbiamo parlato del film, cinque o sei anni fa,abbiamo parlato stunt. E poi venne fuori che voleva farmi interpretare il ruolo di Victor. È stato molto divertente. Mi piace recitare, soprattutto in questo contesto, con questa storia, in una posizione favolosa e con un grande cast.
Come definiresti il tuo personaggio?
Victor non è per niente come me! L’unica cosa che abbiamo in comune è la passione. Ama il suo lavoro come io amo il mio. Victor è il veicolo di supporto della squadra. Quello con le munizioni. Lui è un guerriero esperto che tiene insieme la squadra, sia fisicamente che moralmente. Ha un approccio pedagogico e un atteggiamento amichevole. È soprattutto lì per proteggerli. Non è lì in prima linea, ma tiene il suo posto. È profondamente influenzato da tutto ciò che accade al gruppo, ma rimane calmo e vede la sua missione fino alla fine. Fino a che non si sbriciola. Ma tutti i personaggi di questo film sono grandi, in carne e ossa, con emozione e umanità.
Come descriveresti Stéphane Rybojad?
È soprattutto un amico. Un amico fedele. È appassionato, ha una aggressione, una rabbia che usa non per vincere ma per portare il suo progetto fino alla fine. Per compiacere la gente, per mostrare loro qualcosa di nuovo. La sua forza è anche la chiave di tutto. Essere in grado di riunire sei ragazzi che non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro e trasformarli in una solida unità di uomini che si aiutano, supportano e parlano l’uno con l’altro non è poco. Era un mio amico prima del film e lo è ancora dopo, e questo non avviene spesso.
Se si potesse avere un solo ricordo di questa avventura, quale sarebbe?
È difficile sceglierne solo uno, ma direi il ricordo di quel grande cameratismo, il ricordo di essere parte di una squadra. E riunire sei attori così non è facile. Mi ricordo una grande felicità.
INTERVISTA A MARIUS
Che cosa ti ha spinto verso questo progetto?
La vera avventura. Ho conosciuto Stéphane nel 2005 quando abbiamo fatto un reportage insieme per il programma televisivo “Envoyé Spécial”. Ho trovato che fosse un uomo onesto, sincero e molto interessante con uno stato mentale solido. Da allora, non abbiamo mai perso i contatti. Ho seguito questo progetto dall’inizio, quando si stavano giusto mettendo insieme le idee, fino alla fine. Inizialmente, dovevo solo essere una sorta di consulente tattico e tecnico. Poi, a poco a poco, col passare degli anni e l’avvicinarsi delle riprese, mi disse, “Mi piacerebbe che tu recitassi il tuo ruolo nel film”. E poiché ho la massima fiducia in lui, e che lo seguirei a occhi chiusi nelle sue avventure, ho deciso di accettare la sfida. E mi è piaciuto.
Come definiresti il tuo personaggio?
Poiché mi ha chiesto di interpretare il mio ruolo, mi ha dato il soprannome che avevo quando ero in Marina – Marius. Ha scritto il ruolo per me, tenendo conto del mio modo di parlare, le mie parole e il mio modo di comportarmi. La sua analisi del mio carattere era corretta e lusinghiera. Era come se avessi descritto da me il personaggio. Ed è per questo che non è stato difficile da interpretare. Ho messo l’abito da scena e tutto è venuto naturale. Mi trovai a fare quello che avevo fatto per 22 anni nella Marina. Se dovessi descrivere Marius, direi che è il ragazzo più anziano dell’unità. Quello con la maggiore esperienza nel campo delle operazioni esterne. E poiché era un istruttore teorico e di formazione pratica, gli uomini di questa unità già lo conoscevano. Questo porta a un rispetto reciproco e legami molto forti.
Come descriveresti Stéphane Rybojad?
Quello che mi ha colpito di più è stata l’idea di Stéphane di intraprendere questa avventura con otto tonnellate di attrezzatura e 80 persone. E il fatto che questo scommessa sia alla fine stato un successo, con tanto amore, serenità, volontà e determinazione. Ancora non riesco a crederci.
Se si potesse avere un solo ricordo di questa avventura, quale sarebbe?
Ce ne sono così tanti. Mi ha colpito trovare la stessa professionalità e la stessa passione per il proprio lavoro tra i tecnici del cinema, come si trova nelle Forze Speciali. Ero curioso del loro lavoro, facevo costantemente domande perché volevo capire che cosa stessero facendo e credo che questo film abbia cambiato per sempre la loro visione dell’arma. Probabilmente pensavano fosse solo pieno di teppisti – dopo tutto, anche io avevo sempre pensato che il cinema fosse pieno di personaggi beat. Inoltre, ero anche impressionato dagli attori. Si tratta di un lavoro unico. Non riuscivo a capire come facessero ad assorbire come spugne tutte le espressioni, i gesti e le caratteristiche comportamentali dei ragazzi delle forze speciali durante il corso al del Comando della Marina di Lorient. Hanno preso esattamente ciò di cui avevano bisogno per i loro personaggi per essere credibili, e ha funzionato. Tanto di cappello. Ma se dovessi avere solo un ricordo, sarebbe la mia ultima scena a Chamonix. Avevo notato che per l’ultima scena di Raphaël a Gibuti, il primo assistente disse: “Ultima scena di Raphaël Personnaz!”. E tutti applaudirono. Non lo avevo dimenticato, ma non immaginavo l’enorme impatto che avrebbe avuto su di me arrivato il mio momento, come mi avrebbe fatto sentire sia fisicamente che emotivamente. Appena ho sentito gli applausi, Stéphane e io ci abbracciammo per diversi minuti. Mi sussurrò all’orecchio: “Ce l’abbiamo fatta!”. È stato molto intenso e, naturalmente, ha riportato alla mente molti altri ricordi. Gli dissi: “Sì, ce l’abbiamo fatta!”. E io in realtà non riuscivo a credere che avessimo raggiunto la fine di quella sfida, di quella grande avventura, e che era tutto finito. Era così al termine di una sessione di addestramento o di un’operazione speciale. Avevamo raggiunto il nostro obiettivo. Missione compiuta.
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