SINOSSI e Interviste
Isabelle (Valérie Lemercier), la responsabile delle risorse umane di una compagnia di crociere ha commesso il grave errore di avere una relazione con il suo capo (Lionnel Astier).
Ma prima di intraprendere la crociera inaugurale della nave ammiraglia della compagnia, il suo capo decide di rompere con lei e di licenziarla. Per vendicarsi, alcune donne scelgono il veleno, altre le armi o lo scandalo. Ma Isabelle sceglie Rémy (Franck Dubosc), un vero disastro di uomo, un disoccupato esuberante che, avendo sbagliato tutto sulla terra ferma, pensa di avere più possibilità in mare aperto. Lei lo assume come animatore.
Su quel magnifico palazzo galleggiante, Rémy si rivela subito come il peggior incubo dell’amministratore delegato, ma anche di Richard, il direttore della crociera (Gérard DARMON)…
Poi però, poco per volta, Rémy trova la sua strada e così anche l’amore e il successo, cambiando il suo destino e quello di tutti i passeggeri.
Intervista a ÉRIC LAVAINE
Regista e Sceneggiatore
Come è nata l’idea di BIENVENUE À BORD?
Guardando dei documentari sulle crociere. Nove volte su dieci sono presentate con un aspetto datato, con vecchi cantanti e passeggeri infermi. Ho pensato che non poteva essere tutto lì, e che in quell’universo si poteva sviluppare una sceneggiatura. Una nave è un’isola galleggiante, un luogo chiuso dove le persone si incontrano inevitabilmente nel corso della giornata. In quel contesto, potevo raccontare molte storie, umane, d’amore. Insieme a Hector Cabello Reyes, il mio sceneggiatore, abbiamo fatto una crociera di una settimana per immergerci nell’ambiente, e ci siamo accorti che la gente si diverte, si traveste, balla, è felice.
Perché ha scelto di realizzare una commedia romantica, un genere che normalmente non le appartiene?
A causa di PROTÉGER ET SERVIR. Anche se il film era divertente, alla fine non restava molto, perché non c’era emozione. Con BIENVENUE À BORD volevo che gli spettatori ridessero, ma che fossero anche toccati dai personaggi. E che uscendo dal cinema fossero allegri. Un dosaggio complicato su cui abbiamo lavorato molto, io e Hector. La sequenza che riassume meglio ciò che volevamo è quella in cui Rémy ha il mal di mare mentre la capitana (Luisa Ranieri) gli dice che suo marito è morto. Lo crede sconvolto perché ha la faccia distrutta, ma è solo perché gli viene da vomitare.
E come si traduce in termini di regia?
Volevo che fosse il più leggero possibile, più focalizzato sugli sguardi, non cercavo la risata a tutti i costi e ho fatto particolare attenzione alle immagini. In CASINO di Martin Scorsese, le scenografie sono straordinarie, ma in un vero casinò si ha l’impressione di essere a casa di un Libanese che ha fatto fortuna in Texas. È orribile. Sapevo che l’arredamento della nave dove avremmo girato poteva essere valorizzato. Ne ho parlato con il direttore della fotografia, Stéphane Le Parc, e ha fatto miracoli. Avevo anche deciso di adeguarmi al genere e di filmare la nave che si allontana al tramonto, con un uomo, una donna e un bambino abbracciati sul ponte, ad esempio. I personaggi dovevano essere belli, come quando si sta in vacanza, abbronzati dopo qualche giorno al sole. E anche Rémy. Nella scena del ballo, Franck Dubosc in smoking è molto affascinante. In alcune inquadrature assomiglia ad Alain Delon; siamo lontani dalla sua immagine abituale. Più in generale, volevo che il film fosse più bello sul piano visivo rispetto ai precedenti. Poi mi sono dedicato molto alla musica, volevo che avesse lo stesso tono della storia. Ho avuto la colonna sonora che sognavo grazie a Jean-Michel Bernard, il compositore abituale di Michel Gondry.
È anche il suo primo film corale…
Un coro di 4000 persone, contando i passeggeri e l’equipaggio! (ride). Ho scoperto che è molto difficile portare avanti più storie in parallelo. Inoltre, era necessario che i ruoli secondari che gravitano intorno ai personaggi principali subissero una reale evoluzione. Come la moglie dell’amministratore delegato con l’istruttore di ginnastica, la direttrice delle risorse umane con il direttore della crociera o Rémy con la capitana. È difficile da scrivere, perché sono dei fatti, non c’è un centro di gravità del film. Qui, la vendetta della direttrice delle risorse umane non è che il detonatore di tante altre storie. Ma a me piacciono le interazioni tra i personaggi, dimostrare che gli incontri determinano il loro percorso. È così anche nella vita.
Contrariamente ai film precedenti, i personaggi femminili esistono davvero. Cosa è successo?
Per un regista di commedie, far ridere le donne è più difficile. Perché le conosciamo meno e abbiamo paura di essere cattivi. Un esempio tipico: in BIENVENUE À BORD, quando il Meticoloso, interpretato da Jean Michel Lahmi, viene respinto durante il ballo, fa ridere. La stessa situazione con una ragazza brutta diventa di una tristezza assoluta. È solo un problema di cultura e di educazione. È così. Dunque è una questione delicata. Ma devo molto a Valérie Lemercier. Quando mi ha detto di rispedirle la sceneggiatura, che aveva ricevuto ma non letto, l’ho riscritta tenendo conto del suo potenziale e di come è lei dal punto di vista umano. È un’attrice straordinaria, ricca e profonda. E nella vita è emozionante, intelligente e fragile. Tutto ciò ha arricchito il personaggio.
Si è vista raramente in un registro così sobrio…
Non volevo proporle l’ennesimo ruolo comico. Avevo bisogno che fosse vera, che fosse un contrappunto al personaggio di Franck Dubosc. Nella scena di apertura, se avesse interpretato una direttrice-aguzzina nei confronti di Rémy, saremmo finiti nella scenetta dello scemo e della smorfiosa. Qui invece vediamo che Rémy la diverte, come può succedere quando si incontra un imbecille. Se Franck Dubosc fa ridere, è proprio per il confronto con degli attori che reagiscono normalmente. Stava tutto nel trovare un equilibrio tra commedia e realtà. Scatenare la risata facendo in modo che le situazioni restassero reali per permettere agli spettatori di identificarsi con i personaggi. Valérie era perfetta: ha il senso della commedia, sa come gestire i tempi. Era indispensabile con Franck Dubosc, Gérard Darmon e Lionnel Astier. Se rifacessi lo stesso film con altri attori che non sanno gestire i tempi così bene, non riuscirebbe.
Franck Dubosc, con cui ha già girato INCOGNITO, si è imposto da subito nel ruolo di Rémy?
Di base, in INCOGNITO aveva un ruolo minore. Il potenziale è venuto fuori nel corso delle riprese, e così ho dato maggiore importanza al personaggio. Ma non ero soddisfatto, e avevo voglia di lavorare di nuovo con lui. Dunque ho pensato subito a lui per BIENVENUE À BORD. Rémy è un po’ il fratello minore del Francis di INCOGNITO. Ha la stessa ingenuità, il carattere infantile. Ma non è una vittima, sa di essere trattato da scemo. In fondo, lo dice in una scena. Franck riesce a far passare questi paradossi. Non sono molti gli attori in grado di farlo. È un attore straordinario, molto esigente. È un piacere lavorare con lui. Si impegna sia al livello dei testi, che dei personaggi. È l’attore che mi aiuta di più nella rilettura globale di una sceneggiatura, senza scrivere nulla, solo parlando.
La coppia degli scorbutici, composta da Lionnel Astier e Gérard Darmon, è irresistibile…
Lionnel Astier, lo avevo trovato geniale in KAAMELOTT. Lo avevo visto in un film in cui mi aveva ingannato: malgrado il suo ruolo fosse scritto molto male, era incredibile! Durante le riprese di BIENVENUE À BORD è rimasto sorpreso dal livello dei suoi compagni e si è impegnato moltissimo. Alla fine, era fantastico. Per me, è stato la rivelazione del film. Tutti sanno cosa è capace di fare Gérard in una commedia. Adoro il servilismo del suo personaggio. I suoi gesti, quando si rivolge ai passeggeri, fanno morire dalle risate, e possiede inoltre una prestanza naturale che lo rende perfettamente credibile nel suo ruolo di direttore di crociera. Possiedono entrambi quel senso per i tempi di cui parlavo, sapevo che sarebbero stati perfetti. Quando si ha un cast di quel livello, non ci sono problemi.
Avete girato per sei settimane su una vera nave da crociera. Quali sono stati i limiti?
Sul piano della messa in scena, minimi. Giravamo durante le soste, mentre i passeggeri erano a terra, e per il resto del tempo, abbiamo recintato delle aree piuttosto ampie. Alcune scene divertenti, come quella in cui l’amministratore delegato cerca di sorprendere la moglie a letto con l’allenatore, sono state realizzate in studio. Le cabine, troppo piccole, limitavano l’asse della macchina da presa. Abbiamo dovuto anche stabilizzare alcune sequenze in postproduzione a causa delle onde. Ma il problema vero era il suono. In esterno, era tremendo, tra il vento, i gabbiani, le caldaie, l’elica, c’era sempre rumore. Sono stato costretto alla post-sincronizzazione. Per il resto, non ho avuto grosse difficoltà, la troupe e i produttori si sono organizzati in modo tale che io potessi dedicarmi completamente alla scrittura, ai miei attori e alla regia. Era tutto ciò che volevo. Sul set non sono un isterico, in quel caso ero veramente zen.
Eravate sempre insieme sulla nave, anche quando non giravate. La complicità ha arricchito il film?
È vero che invece di tornare a casa, nel traffico di Parigi, ci ritrovavamo sul ponte 9 per prendere un aperitivo o mangiare. Era molto piacevole e ci ha fatto avvicinare. È molto più facile lavorare quando le persone sono complici; si guadagna tempo, energie, l’ambiente è disteso e credo che nel film si senta. E infatti non è finita lì. Rivedo regolarmente Enrico Macias, Philippe Lellouche, Franck Dubosc, Gérard Darmon e Valérie Lemercier. Ci sentiamo, andiamo a cena insieme. È la prima volta che mi succede, dopo un film.
Intervista a FRANCK DUBOSC
Interprete di REMY PASQUIER
Come le è stato presentato il progetto di BIENVENUE À BORD da Éric Lavaine?
Inizialmente, aveva voglia di far rivivere Francis, il mio personaggio in INCOGNITO, in un altro contesto. L’idea era che Francis, che sogna da sempre di fare l’attore, tentasse la fortuna sul mare, dato che sulla terraferma non ci riusciva. Dunque, viene assunto su una nave da crociera come animatore, ed è il disastro. Ma pensandoci bene, abbiamo pensato che sarebbe stato meglio allontanarsi da Francis, smussarne gli eccessi, ampliare la tavolozza e dargli un altro nome: Rémy. In seguito ci siamo accorti che Rémy era troppo presente e che avremmo dovuto circondarlo con altri personaggi per metterne in evidenza la comicità e distillare l’umorismo. Rémy e gli altri si sono arricchiti via via, sono nate delle storie parallele ed è diventato un film corale. Rémy e la direttrice aprono in un certo senso le porte di quella parentesi di una settimana, e ne nascono varie avventure.
Allora, chi è Rémy?
È un bravo ragazzo, più intelligente di quanto non sembri. Direi che è un falso ingenuo. Come quelle persone che riteniamo stupide e che sanno di esserlo. C’è un momento in cui lo dice alla direttrice: «Lei mi ha scelto perché pensa che sia cretino». È la prova che lo sa e che, un momento dopo, torna ad esserlo. È la sua condizione e non la subisce, la accetta completamente. Invece, la fa subire agli altri. È qui che diventa comico. È un falso ingenuo, ma un autentico buono, fa del bene intorno a sé, provoca incontri, restituisce il sorriso a un bambino e a sua madre. È il filo conduttore del film, senza essere il personaggio principale.
Cosa la attrae in questo genere di personaggio?
Amo questo tipo di personaggi perché sono difficili da interpretare. Quando si interpreta un cattivo o Tal dei Tali, si può fare riferimento a ciò che siamo o a ciò che vediamo intorno a noi. Quando interpreto Rémy, non posso fare riferimento al mio vissuto o alle persone che incontro, perché nessuno assomiglia a Rémy, o a Francis, nella realtà. Sono costretto a inventare, a esagerare un po’. È come un personaggio dei cartoni animati, unico nel suo genere. Sono io il mio unico punto di riferimento, con le mie qualità, i miei difetti, il mio immaginario. I dialoghi mi aiutano. Rémy non si esprime come Francis, anche se uno è figlio dell’altro, è più ancorato alla realtà, e ogni tanto gli capita di tornare sulla terra.
Anche i costumi, vanno da una certa signorilità britannica all’eleganza in smoking…
È vero. Éric ha voluto così. Io avrei preferito degli abiti più ridicoli, ma Éric ci teneva che Rémy fosse chic, di un’eleganza un po’ inglese, in effetti. Pensava che non fosse il caso di esagerare con dei vestiti improbabili. Mi sono opposto e ho perso, ma ammetto che aveva ragione lui. Detto ciò, Éric non ha ricomprato i costumi di Rémy. I pantaloni a pied-depoule sono eleganti, ma non si portano tutti i giorni (ride).
Come definirebbe allora Éric Lavaine?
È il buon amico con cui si ha voglia di confidarsi, con il quale si può parlare. Ascolta e tiene conto di ciò che gli si dice, non è ancorato al suo punto di vista. Alla fine decide lui, ma in ogni caso, è aperto alle proposte. È anche molto simpatico e rilassato, che è molto importante, soprattutto quando si lavora a una commedia. Éric ti invoglia a dare perché è il cliente degli attori che ingaggia, che ama e che rispetta. Non è così per tutti i registi. Éric rispetta tutti, dall’attrezzista all’attore. Sa, le riprese somigliano al regista, questo dice tutto. Se Éric Lavaine mi proponesse di fare il terzo film con lui, firmerei immediatamente.
C’è una bella sfilza di attori comici nel film. Qual è la differenza tra voi, nell’approccio alla recitazione?
Io so di essere esigente, presto molta attenzione ai dettagli, anche se a volte possono sembrare microscopici. Gérard Darmon è preciso come me, è millimetrico e interpreta la commedia come fosse musica. Si vede che è anche un cantante, nel ritmo che dà alle parole. Abbiamo ognuno il proprio strumento ma suoniamo la stessa partitura, ed è un piacere. Non ho nemmeno bisogno di guardarlo, so già cosa farà. Sappiamo di poterci fidare. Valérie Lemercier la conosco da vent’anni ma non avevamo mai lavorato insieme. Mi ha sorpreso. Ho scoperto che è molto attenta, modesta e generosa. Fa anche one man show e interpreta commedie; avrebbe potuto mettersi in competizione, ma non lo ha fatto. Più che altro, ci imitavamo. Con Luisa Ranieri è diverso, con lei sono sul piano della seduzione perché Rémy se ne innamora. Temevo che non mi capisse perché è italiana e non padroneggia ancora perfettamente il francese. Ma lo capisce bene e riesce a compensare le sottigliezze della lingua che le sfuggono con la sua professionalità. È molto attenta e precisa, è un piacere lavorare con lei.
Avete girato in condizioni particolari. Come avete vissuto quelle sei settimane in mare?
Molto bene. Alcuni avevano paura di dover stare in un ambiente chiuso, ma una nave è immensa. Mi è capitato più di una volta di cercare gli altri attori o i membri della troupe. Ma siccome i telefoni non hanno segnale, non riuscivo a trovarli. L’ambiente non era poi tanto chiuso, alla fine. E con i Caraibi intorno, non era davvero così tremendo. Mi piace girare fuori, lontano da Parigi, perché si sta insieme e si creano delle complicità. Si impara a conoscersi, a ridere delle stesse cose. Il trucco è stato duro. Le cabine del trucco non avevano finestre e la mia truccatrice aveva spesso il mal di mare… Ciò che stanca, su una nave, è il fatto che alla fine di una giornata di riprese, si ha l’impressione di continuare a lavorare, perché il movimento della nave, quello, non si ferma. Non c’è uno stacco reale. Ma è un dettaglio marginale, rispetto ai bei momenti che abbiamo vissuto. E se poi il film piace anche al pubblico, è davvero la ciliegina sulla torta.
Intervista a VALERIE LEMERCIER
Interprete di ISABELLE
Cosa l’ha spinta a interpretare il ruolo di Isabelle, la direttrice delle risorse umane, in BIENVENUE À BORD?
Éric Lavaine. Mi aveva inviato la sceneggiatura insieme a un messaggio, ma io non ho letto né l’una, né l’altro. Forse non avevo molta voglia di girare in quel momento, non so. Poco tempo dopo, lo ho incontrato alla festa di compleanno di Jonathan Lambert. Ridendo mi ha detto: «Allora, non leggi le sceneggiature?» e poi ne abbiamo parlato. Lo ho trovato divertente, molto simpatico, ho pensato che ci saremmo divertiti durante le riprese. Non è il fattore trainante sul set, ma è importante. Gli ho promesso che se mi avesse rispedito la sceneggiatura, l’avrei letta. La storia mi ha fatto ridere molto. Ho ritrovato l’universo di Éric, della sua serie H e di INCOGNITO in particolare.
Come ha affrontato il personaggio di una donna che si vendica?
All’inizio ero disorientata, non l’avevo mai interpretato, per me era una novità. Sono invece abbonata al ruolo di vittima, al cinema. Sulla scena passo dalla povera ragazza al carnefice. In questo caso, si tratta di una quarantenne che prende in mano il proprio destino e decide di vendicarsi. Era stata l’amante dell’amministratore delegato della compagnia per cinque anni e poi scopre che se ne frega altamente di lei. È ferita, distrutta, ma non vuole lasciar correre. È una donna normale, forte e fragile, come ne esistono nella realtà.
È anche commovente. È un aspetto che in genere lei rivela poco. Perché?
Avevo una specie di teoria secondo la quale dovevo far ridere a ogni costo, ero lì per quello, era quello il mio ruolo. Credo che sia una forma di protezione. Non mi piacciono i ricatti, far piangere. Ma i film ti cambiano un po’, come la vita. E stavolta ho accettato di mollare la sponda e di lasciarmi trasportare. Insomma, mi è piaciuto che Éric ci mettesse dei tocchi di emozione. Ma è successo nel corso delle riprese. Ad esempio, nella scena iniziale che si svolge nell’ufficio della direttrice delle risorse umane, in origine c’erano molti più effetti comici su Isabelle. Dopo aver visto i giornalieri, Éric ha capito che non funzionava. È stata appena lasciata dall’amante, per lei è dura, se non si capisce da subito che ha preso un duro colpo, il film non regge più. Abbiamo girato le scene un’altra volta, così come sono adesso, e va molto meglio. Il personaggio è più credibile, più commovente. All’improvviso, alcune scene divertenti sono diventate sincere.
Lei conosce Franck fin dai tempi dell’accademia, ma non avevate mai lavorato insieme. Che attore ha scoperto?
Sì, siamo stati tutti e due all’accademia di Rouen! Mi sorprende perché è surreale, ha innato il senso del particolare assurdo. Ha il coraggio di fare cose che non fa nessun altro, e non ha paura di un ruolo da imbecille. Bisogna essere molto intelligenti per interpretare uno scemo! Fa un gran lavoro. Non trascura nulla. Insiste finché non è perfetto. Louis De Funès era così. Un perfezionista, preciso. Credo che se Franck è così famoso, se è arrivato dov’è, non è per caso.
Cosa ha pensato di Lionnel Astier?
Sapevo che era un grande attore perché lo avevo visto in KAAMELOTT. Ma ho scoperto che è pazzo, nel senso buono del termine. È capace di scaricarsi, di commettere degli orrori, delle grosse stupidaggini, così, all’improvviso. È divertente, non te lo aspetti da lui, ha un’aria talmente seria. È buffo. E poi, in lui c’è una violenza repressa che gli dona una straordinaria intensità. Anche Lionnel lavora molto, ripete il testo in silenzio, tra una scena e l’altra. È uno spettacolo molto impressionante.
Gérard Darmon, lo ha affiancato all’epoca dei Nuls, ma che tipo di attore è?
È molto sensibile, capisce tutto al volo, è meraviglioso trovarsi davanti a un attore del genere. Lo adoro. Per me è stato lui il grande incontro del film. Nelle sue interpretazioni è al tempo stesso energico e molto raffinato. Scherza tra una ripresa e l’altra, passa il tempo a far ridere. Non è distratto, è il suo modo di lavorare, di dimostrare che tutto è solo un gioco. Gérard è un gran lavoratore che finge di non lavorare. E alla fine, ho incontrato l’unico uomo che come me è capace di trovare qualcosa da comprare anche nel peggiore dei negozi.
E lei, come era sul set?
Tendenzialmente, ero piuttosto neutra. Mi limitavo a imparare il testo in modo piatto, pensando che il resto, l’intonazione, i gesti, sarebbero venuti sul posto, insieme al regista. Anche i costumi mi hanno aiutato a creare il personaggio. Avevo vestiti con lo spacco e tacchi alti; ne ho dedotto che Isabelle fosse sicura di sé, femminile, a suo agio. Prima di fare dei film, tendevo a modificare i dialoghi. Quando ho capito quanto fosse fastidioso vedere un attore che cambia delle battute frutto di un lungo lavoro di perfezionamento, ho smesso. Adesso resto fedele allo scritto ed è molto più facile.
Pensava che sarebbe stato divertente lavorare con Éric Lavaine. E lo è stato?
Sì. È una persona divertente sia sul set che nella vita. Non si prende affatto sul serio, non si ha l’impressione che metta in gioco tutta la sua vita in un film. Per lui non è altro che cinema. Il che non significa che se ne freghi, ma che prende le distanze. È intelligente, disponibile, dà fiducia alle persone e sappiamo che con lui possiamo lasciarci andare. Non è ossessivo come altri, può anche improvvisare una scena, se lo ritiene necessario in quel momento. O lasciare che un attore improvvisi. Con lui tutto è possibile, niente è grave. È il regista più leggero che abbia mai incontrato, e ciò è molto, molto piacevole. In fondo, sono state riprese idilliache.
Nonostante la sua fobia dell’acqua, delle barche e della gente?
È vero che all’inizio avevo paura. Soffro di claustrofobia, non sono mai stata in barca per più di due ore e non mi piace la folla. Ma su una nave con 4000 persone ci si può isolare senza problemi. La prima settimana non sono mai uscita dalla cabina. Avevo bisogno di stare da sola. Poi a un certo punto gli altri si sono preoccupati, mi chiamavano perché andassi a cena con loro, e una sera, mi sono decisa. Da quel momento è andato tutto bene. Trovavo bellissimo svegliarmi ogni mattina in un posto diverso, vivere seguendo il ritmo di una nave. Non avrei mai pensato che potesse piacermi. Stavamo sempre insieme, facevamo delle feste, delle serate. Per Hannukkah, da brava cattolica, ho fatto delle kippa per tutti, con il panno che si usa per avvolgere i microfoni. Era divertente vedere Enrico Macias, Gérard Darmon o Jean-Michel Lahmi che portavano le kippa fatte a mano da me. Non mi era mai successo prima. Credo che questo film ci abbia legati per la vita.
Intervista a GERARD DARMON
Interprete di RICHARD MORENA
Cosa le è piaciuto della sceneggiatura?
È una storia semplice ma atipica, perché si svolge su una nave, una piccola città galleggiante dove tutto è possibile, durante una crociera dove persone di ogni tipo possono incontrarsi. Ci sono momenti di commedia pura, emozioni, perle di umanità e di tenerezza. Mi è piaciuta questa miscela. Al di là della sceneggiatura, avevo voglia di lavorare con Éric Lavaine perché mi era piaciuto molto INCOGNITO. Se il regista è bravo e lo script è ben strutturato, non mi fermo, vado. Sono stato spinto anche dalla presenza di Valérie Lemercier e di Franck Dubosc.
Come ha affrontato il suo personaggio?
Allora, non sono andato in crociera prima delle riprese! (ride) L’unico materiale dell’attore è il suo vissuto, lo spirito d’osservazione e il suo immaginario. Il mio personaggio si chiama Richard Morena, un nome dal suono mediterraneo intorno al quale potevo già inventare una parte della sua personalità. Ho pensato anche che dovesse avere una vita un po’ bizzarra. Non ha famiglia, dice di avere uno chalet ma non ci sta quasi mai: per tre quarti dell’anno è in mare aperto insieme a 4000 persone. Nel suo lavoro, deve essere molto disponibile con gli altri, è al loro servizio, dunque deve essere presente qualunque cosa accada. Me lo sono immaginato come un uomo che ha molte responsabilità, un po’ indaffarato e ambizioso, dato che è il direttore della crociera, ma che forse ha voglia di fare altro. Forse ha dei sogni? Forse pensa solo al suo chalet di montagna, perché solo lì si sente felice e in pace? Ho provato a immaginare questo. E poi ci sono cose che non si trovano da soli. Ho parlato molto di Morena con Éric Lavaine. Anche tra attori, parliamo delle nostre scene, definiamo la direzione che non vogliamo prendere e il risultato che vogliamo ottenere. È un lavoro continuo, in definitiva.
Come è riuscito a renderlo allo stesso tempo sornione e brontolone?
È semplice: Morena si trova in una situazione impossibile: ha un amministratore delegato sopra di sé, dunque un capo a cui deve rendere conto. E un altro sotto di lui, l’animatore di bordo, che vorrebbe eliminare perché lo mette in ridicolo. Ma non può fare nulla perché Rémy è protetto dall’amministratore. Da una parte, si trova in una situazione dominatore/dominato, dall’altra, si sforza di sorridere a un subalterno che vorrebbe strangolare. Dovevo trovare le dosi giuste, lasciar vedere la rabbia repressa e dargli una servilità un po’ vigliacca. Non dovevo fare una caricatura, ma essere, semplicemente, cercando di rendere il personaggio attraente, malgrado tutto. È un piacere per un attore di commedie.
Ce ne erano parecchi sul set. Come vi trovavate insieme?
Nella commedia, non c’è un solo ritmo, ce ne sono molti. Tutto sta nel riuscire a cogliere il tempo giusto e suonare tutti la stessa partitura. Dipende da questo la riuscita di una commedia. Nel nostro caso, nessuno ha fatto il suo numero da attore per attirare l’attenzione su di sé, non c’erano solisti. Ci siamo integrati tutti, abbiamo davvero lavorato insieme. Ero contento di recitare con Franck Dubosc, è molto preciso, sa esattamente dove va. Valérie Lemercier per me era un po’ una garanzia. Il fatto che avesse accettato di partecipare al film era un segno di qualità. È una grande attrice. Ma ho fatto anche delle scoperte. Philippe Lellouche, Jean-Michel Lahmi, Lionnel Astier… Scoperte professionali, ma anche umane. Questo film ha lasciato su di noi delle tracce indelebili. Credo fosse dovuto all’incredibile scenografia della nave, assolutamente barocca. Anche se avremmo potuto isolarci, eravamo sempre insieme. Non avevamo voglia di lasciarci, stavamo bene insieme. Anche Enrico Macias, che è venuto per qualche giorno per una piccola parte, è ringiovanito. Ci ha portato una luce straordinaria, la sua presenza allegra, le sue canzoni. Non sono stati incontri effimeri, come se ne fanno tanti in questo lavoro, hanno avuto delle ripercussioni sulle nostre vite. Sono rimasto molto vicino a Valérie Lemercier, ho recitato nel primo film di Philippe Lellouche, ho dei progetti con Éric Lavaine…
Cosa le piace di Éric Lavaine?
Ha una grande qualità: è intelligente. Significa che non è rigido, ascolta, guarda, sente, sceglie, ama… È molto aperto, pur avendo un’idea precisa di ciò che vuole fare. Sentiamo che si fida di noi, che sa esattamente chi siamo e cosa possiamo dargli. Per questo, siamo più rilassati. Possiamo lasciarci andare e anche commettere degli errori, ma sappiamo che non ne farà un dramma. Ho bisogno di persone di questo tipo, attente e che sanno molto bene che avendoti scelto, sono già a tre quarti del cammino. Credo che ciò faccia parte del talento di un regista.
E adesso, che ricordi ha di quell’esperienza?
Tante immagini, magnifiche e strane. In sei settimane, abbiamo visto sei diverse crociere. Ogni domenica, 4000 persone lasciavano la nave e ne arrivavano altre 4000. È buffo, l’ho vissuta veramente come qualcosa di ludico. Ho ancora nella testa il viaggio incredibile che ci ha portati dal Québec a Miami, l’arrivo a New York, via mare, lo scalo a Boston, il Costa Rica, che abbiamo sfiorato, Cuba, che abbiamo visto a 50 metri, tutte quelle isole… Quando potevamo, scendevamo a terra. Avevamo le nostre brave abitudini e i nostri piani, alla fine, sapevamo dove andare per non essere assaliti da folle di turisti. Quando avevo voglia di isolarmi, tornavo nella mia splendida cabina con balcone, mi sedevo sulla sdraio e prendevo il sole. Onestamente, ho girato in condizioni peggiori! Mi ricordo soprattutto le amicizie che sono nate, incontri artistici formidabili e la certezza di fare un film di qualità.