27 Aprile Maternity Blues – Fandango SINOSSI e Note degli autori

SINOSSI

 

Quattro donne diverse tra loro, ma legate da una colpa comune: l’infanticidio. All’interno di un ospedale psichiatrico giudiziario, trascorrono il loro tempo espiando una condanna che è soprattutto interiore: il senso di colpa per un gesto che ha vanificato le loro esistenze. Dalla convivenza forzata, che a sua volta genera la sofferenza di leggere la propria colpa in quella dell’altra, germogliano amicizie, spezzate confessioni, un conforto mai pienamente consolatorio ma che fa apparire queste donne come colpevoli innocenti. Clara, combattuta nell’accettare il perdono del marito, che si è ricostruito una vita in Toscana, sconta gli effetti di un’esistenza basata su un’apparente normalità. Eloisa, passionale e diretta, persiste ogni volta nel polemizzare con le altre, un cinismo solo di facciata. Rina, ragazza‐madre, ha affogato la figlia nella vasca da bagno in una sorta di eutanasia. Vincenza, nonostante la fede religiosa sarà l’unica a compiere un atto definitivo contro se stessa. Ha ancora due figli, fuori, e per loro riempie pagine di lettere che non spedirà mai.

 

 

NOTE AUTORI

 

Maternity Blues, ha il nome dolce di una musica lontana invece è una sindrome assassina, una depressione post partum che porta una madre ad uccidere il proprio figlio. La depressione post partum è un disturbo dell’umore sempre più preoccupante che colpisce fino al 30% delle donne immediatamente dopo il parto e si può manifestare in varie entità. Secondo il Rapporto Eurispes Italia 2011, nel 2010 è stato compiuto un infanticidio ogni 20 giorni. Un anno prima la cadenza era di uno ogni 33 giorni e, nel 2008, di uno ogni 91. In numeri assoluti, i casi sono stati 4 nel 2008, 11 nel 2009 e 20 nel 2010. Gli psichiatri parlano spesso di “depressione post partum” ma questa diagnosi rivela non solo il sintomo di una vera e propria malattia ma anche le condizioni della maternità, di ogni maternità, dove l’amore per il figlio non è mai disgiunto dall’odio per il figlio, perché vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo corpo, spazio, tempo, sonno, relazioni, lavoro, affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio. La nostra società si ritrova incapace di accettare una verità che la psicologia e l’antropologia moderna hanno da tempo verificato: il cosiddetto istinto materno non esiste. L’idea per la quale esista una sorta di vincolo naturale fra madre e figli che trae origine dal parto, vincolo che alcuni finiscono per estendere a tutte le donne e a tutti i bambini indipendentemente dal legame di sangue, vincolo che al contrario molti negano sussista anche nel genere maschile persino tra padri e figli, è a tutti gli effetti un mito. Spesso conoscere la storia pregressa delle infanticide, aiuta a capire come l’istinto materno non sia affatto un istinto innato, come la maternità sia qualcosa di estremamente complesso e come la depressione maggiore o post partum, se non compresa, possa sfociare anche nell’assassinio del proprio figlio, che, poi, altro non è che un suicidio. I sintomi della depressione post‐partum sono spesso tenuti nascosti sia dalla stessa madre, per motivi di disistima, ma anche dai famigliari che la circondano, per motivi di imbarazzante vergogna. La solitudine è la prima barriera che una madre dovrebbe infrangere. Il testo teatrale “From Medea” di Grazia Verasani, da cui è tratta la sceneggiatura, nasce non solo come riflessione sull’istinto materno ma anche come accusa contro una società che ha sempre bisogno di creare mostri e giudicare un malessere che non andrebbe liquidato con leggerezza. Nel film non c’è traccia di giudizio nei confronti delle protagoniste, ma neppure di giustificazione e, tanto meno, di assoluzione. C’è semplicemente la fotografia delle loro vite, raccontate dal luogo dove stanno scontando la loro pena, Ospedale Psichiatrico Giudiziario, e contemporaneamente cercando di «curarsi» con il supporto di psichiatri. Ci è sembrato anche estremamente interessante sottolineare come Rina, Vincenza, Eloisa e Clara vivano come “sospese” in un limbo dalle pareti sottili che le separa, ma al tempo stesso le protegge dal mondo reale. Un limbo difficile da varcare anche per via di quei pregiudizi e quella superficialità a cui i media ci hanno abituato. I medici a Castiglione delle Stiviere, rinomato O.P.G. dove queste donne vengono spesso ricoverate, parlano anche di concorso di colpa: “molte arrivano a questo gesto contro natura, anche per colpa di mariti assenti o violenti, per infanzie difficili, a volte brutali”. Calandosi con attenzione nelle vite dolorose o estremamente grigie delle protagoniste non si può non provare per loro PIETAS, quel sentimento che si prova nel momento in cui si smette di giudicare e si inizia a cercare di comprendere.

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