Mstandrea : “Nell’epoca in cui viviamo è difficile entrare in contatto con la spontaneità delle nostre emozioni”

 

Mstandrea : “Nell’epoca in cui viviamo è difficile entrare in contatto con la spontaneità delle nostre emozioni”  

di Paolo Calcagno 

 

Valerio  Mastandrea per il suo debutto nella regia cinematografica, a 46 anni, ha scelto un tema difficile e tosto, quale il confronto tra apparenza e realtà nella manifestazione del proprio dolore. Il contrasto tra pubblico e privato, spontaneità e condizionamento sociale, intimità ed esibizione,  superficie e profondità, fa da metronomo al racconto che Mastandrea analizza con ricercato equilibrio evidenziando rispetto dei sentimenti, disagio esistenziale, ironia liberatoria. L’opera prima del noto e apprezzato attore romano ha per titolo Ride (nelle sale dal 29 novembre) ed e’ l’unico film italiano in concorso al Torino Film Festival. Con lo stile che lo contraddistingue sullo schermo e sulla scena, Mastandrea ha scelto di separare il suo carisma e la sua classe di attore dalla prova di regia che si è imposto, peraltro su una sceneggiatura che porta la sua firma. Il  dolore di Ride e’ quello provocato nel piccolo centro poco distante dalla capitale dalla notizia choc della morte di un giovane operaio a causa di un incidente sul lavoro. Un dramma annunciato oltre un migliaio di volte l’anno dai notiziari delle varie emittenti (quasi sempre quelle locali ormai) che ci scorre addosso, purtroppo senza lasciare segni particolari, come le tante notizie sui conflitti sparsi nel mondo. Ma, mentre nella frazione romana bagnata dal mare, monta l’attesa e cresce la commozione per il funerale dell’ultima vittima degli “omicidi bianchi”, la giovane moglie (interpretata con grande impegno dall’ispirata compagna di Mastandrea, Chiara Martegiani, al suo debutto come protagonista) e il figlio di 10 anni (il piccolo Arturo Marchetti) affrontano a modo loro il lutto che li ha colpiti, elaborando la loro sofferenza senza, tuttavia, esternarla con lacrime e atti di disperazione. Oscillando sui versanti del naturalismo e del surreale, ignorando piccoli e grandi trucchi, Mastandrea insegue il diritto al dolore,  sia pure inceppato biologicamente nella consueta manifestazione enfatica, attesa e riconosciuta dal mondo esterno. La moglie dell’operaio scomparso riceve e consola visitatori affranti ai quali fa coraggio (e talvolta anche il verso), mentre il figlio si prepara con un amichetto a trovare le risposte per le eventuali domande che gli rivolgeranno giornalisti e conduttrici delle Tv che si sono prenotati per riprendere il funerale. Angoscia e protesta si annodano, in particolare, in alcune scene surreali, quali quella della pioggia che invade il soggiorno inzuppando la vedova; oppure la comparsa del fratello criminale dell’operaio (STEFANO Dionisi) che si gusta un piatto di inesistenti spaghetti. E senza dimenticare il contributo eccellente di Renato Carpentieri (padre dell’operaio) che conferma le vette sulle quali ormai si muove, tuttavia, va sottolineato che il coraggioso e alto debutto registico di Mastandrea non è esente da lacune tipiche dell’opera prima, come una collezione eccessiva di ellissi narrative, il risalto dilungato dell’innocenza infantile soltanto presunta, la ricerca continua di tenerezza nei primi piani della protagonista, il montaggio volutamente trascurato, talvolta perfino in maniera irritante. E va registrato anche l’ottima accoglienza riservata dal pubblico del Festival al “deb” Mastandrea, che come regista non si è separato da quella sensibilità che gli riconosciamo quale suo principale timbro d’attore.

“Nell’epoca in cui viviamo è difficile entrare in contatto con la spontaneità delle nostre emozioni  - Ha commentato il neoregista Mastandrea al Festival di Torino -.Mi interessava dare la colpa a questa società che ti impedisce di vivere il dolore in modo sano. Il tema delle morti bianche non è una mia ossessione: e’ da anni che su questa tragedia non è cambiato nulla, anzi qualcosa è cambiato ma in peggio. So che la stampa è in buonafede, ma spesso si occupa di una morte del genere per 3/4 , giorni poi la notizia scompare. E voglio anche aggiungere che il lavoro non va festeggiato il Primo Maggio: va reclamato”.

Paolo Calcagno

 

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