La festa del cinema di Roma si accende con Scorsese

di Paolo Calcagno

“Signori, un genio del Cinema”, asciutta ma perfettamente calzante la definizione con cui il direttore artistico della Festa del Cinema di Roma, Antonio Monda, ha introdotto agli Incontri Ravvicinati il Maestro Martin Scorsese. Accolto con boati e standing ovation da fans di ogni età (a centinaia avevano trascorso fino a dieci ore in fila per non mancare all’appuntamento con la sua masterclass e la consegna del Premio alla Carriera da parte di Paolo Taviani), il regista Premio Oscar, autore di capolavori, quali Taxi Driver, Toro Scatenato, The Departed, ha dovuto attendere qualche minuto prima che scemasse l’eccitazione al color bianco della sala Sinopoli dell’Auditorium dove, fra gli altri, erano in platea i Premi Oscar Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo, Giuseppe Tornatore e Nicola Piovani.
Martin Scorsese, 75 anni, ha voluto dedicare la serata alle sue origini italiane rivelando il suo personale “catechismo cinematografico” declinato in nove sequenze di altrettanti film italiani, realizzati entro gli anni ’70, che hanno contribuito in maniera fondamentale alla sua formazione di cineasta. “Sono film che amo particolarmente, perché hanno rafforzato la mia volontà di diventare regista e che, poi, hanno persino influenzato il mio modo di intendere e di fare Cinema. Non sono i miei preferiti, perché dopo, quando ormai già facevo questo mestiere, ho visto tanti altri film italiani molto belli. Questi film, per me, non erano soltanto cinema, ma erano quello che accadeva realmente ogni giorno, erano la vita vera”, ha spiegato il regista italoamericano.
Questi i film scelti da Martin Scorsese:
Accattone (1961), di Pierpaolo Pasolini. Sequenza finale con la morte del magnaccia interpretato da Franco Citti. “ La prima volta l’ho visto al Festival di New York, nel 1963, o ’64: e’ stata un’esperienza molto forte. Sono cresciuto in un quartiere duro di New York e il primo film con personaggi in cui mi riconoscevo è stato Fronte del porto, di Elia Kazan, ma era un film degli Studios e quindi era un’altra cosa. Con i personaggi del film di Pasolini, invece, mi sono identificato subito. Non avevo idea di chi fosse Pasolini, fu uno choc perché venne fuori dal nulla e capivo le persone che raccontava, conoscevo quella gente: c’è un’umanità, di più, c’è una santità. Alla fine del film, quando Accattone morendo dice “Ora sto bene, ho sofferto abbastanza”, lì c’è la sua santità: muore per riposarsi e lì c’è la santità dell’animo umano. Anche dove sono cresciuto io quella del protettore di prostitute era la figura più infima. E, quindi, prendere la forma più bassa dell’essere umano e farlo morire tra due ladroni (uno si fa il segno della croce, ma al contrario), con una prostituta che si chiama, ovviamente, Maddalena, con la musica di Bach in sottofondo, rendeva il messaggio chiaro: le persone di strada sono quelle più vicine a Gesù Cristo. Ho imparato moltissimo dai film di Pasolini e come poeta e scrittore l’ho letto tutto, sebbene sia stato difficile e abbia impiegato 15 anni. Anch’io ho usato la musica di Bach, l’ho messa in “Casino” che per i protagonisti è il Paradiso, ma ne vengono espulsi”.
La Presa del Potere di Luigi XIV (1966), di Roberto Rossellini. La scena è quella del capezzale del monarca con il consulto dei medici di corte.”Quando avevo 5 anni, avevo a casa una piccola tv e guardavo i film neorealisti: Roma Città Aperta, Sciuscià, Paisà e Ladri di Biciclette. Per me, non era Cinema ma vita vera e avevano una connessione con gli uomini e le donne della mia famiglia: non mi sembravano film ma racconti di ciò che accadeva quotidianamente. Al Festival di New York, il film di Rossellini non fu ben accolto, ma quel grande maestro ha reinventato il Cinema tante volte, prima col Neorealismo, assieme a De Sica e Zavattini, poi con film come questo. Verso la metà degli anni Sessanta, la tv era diventata il media più importante e lui lo ha utilizzato per fare film didattici. Conobbi Rossellini a Sorrento, agli Incontri del Cinema, nel 1970, e aveva la sensazione che nel Cinema l’arte fosse ormai rivolta verso se stessa: “Più che l’arte, oggi, m’interessa l’istruzione”, mi disse. Questo film sembra uscito dai quadri di Caravaggio, o Velázquez, per la bellezza della costruzione dell’immagine. Ho passato ore e ore a guardare il lavoro di Rossellini, aveva la capacità di ridurre tutto all’essenziale: attraverso il dettaglio Rossellini sapeva raccontare la Storia, come è evidente in Viaggio in Italia, in Paisà, che hanno condizionato il mio modo di fare Cinema. Io ho guardato a lui sia per Toro Scatenato sia per Re per una Notte, ma anche per altri miei film più recenti”.
Umberto D (1952), di Vittorio De Sica. “Credo che questo film sia l’apice del Neorealismo. Il protagonista è un vecchio signore e il film mostra i cambiamenti della società che, una volta, rispettava e onorava gli anziani, mentre oggi li vediamo per strada a chiedere l’elemosina. E la cosa più interessante di questo film è che non è affatto sentimentale, nonostante la musica in crescendo. C’è un uomo che ha bisogno di mangiare e che usa il suo cane per sopravvivere: normalmente, nei film chi è carino con gli animali fa diventare la scena sentimentale, ma invece lui ha pensato di far lavorare il cane perché così tutti saranno carini nei suoi confronti. Umberto D è il momento ultimo e sublime del Neorealismo grazie alla purezza, alla dignità e all’ironia di De Sica”.
Il Posto (1961), di Ermanno Olmi. “È un film molto speciale. Questo film e I Fidanzati sono stati fatti con uno stile che aveva ereditato dai documentari, alla John Cassavetes, e che sento molto vicino al mio modo di vedere il Cinema. Titoli come L’Avventura, La Strada, 8 e 1/2 fanno davvero parte della mia vita, ma Il Posto ha questo senso di purezza… Al ballo di Capodanno, il ragazzo osserva una scena di seduzione e di tradimento. C’è la disperazione del dopoguerra e la nascita dell’industrializzazione. E, così, vai a lavorare in fabbrica e poi? E, poi, muori. C’è uno stile in quelle dissolvenze che, in seguito, ho voluto riportare in Toro Scatenato”.
L’Eclissi (1962), di Michelangelo Antonioni. Alain Delon attende Monica Vitti sul molo per un incontro galante, ma dall’acqua affiora un’auto con un cadavere. “Il primo film di Antonioni che ho visto è L’Avventura e ho dovuto imparare come leggerlo, perché il mio modo di osservare le immagini del cinema viene dall’età d’oro del Cinema, sia americano, sia straniero. Questo mi ha dato la possibilità di imparare a concentrarmi e osservare l’immagine cinematografica. C’era un grande conflitto tra La Dolce Vita e L’Avventura all’epoca dell’uscita, ma anche La Dolve Vita è realismo. Guardando ripetutamente L’Avventura ho imparato l’importanza dello spazio. In un certo senso, per me era come l’arte moderna, anche se c’è chi mi dice che in arte non capisco quello che va oltre la Madonna con bambino. Ma L’Avventura è fra i film più emozionanti mai visti e il suo finale è uno dei più belli di sempre. Antonioni mi ha insegnato un’esperienza nuova di Cinema, diversa, alienante. Il suo lavoro sullo spazio, sulla composizione, sulle luci e ombre, sui personaggi: tutto in Antonioni appartiene a una mente altra, a una fantascienza narrativa. Nella trilogia con L’Avventura e La Notte, L’Eclissi rappresenta un passo avanti dal punto di vista narrativo con il suo modo di allontanare i personaggi. L’Eclissi porta, infatti, a “Blow-Up” e “Zabriskie Point” “.

Divorzio all’italiana (1961), di Pietro Germi. “Ho studiato questo film mentre preparavo Quei bravi ragazzi. In particolare, ho apprezzato lo stile e l’arguzia dei movimenti di macchina di questa commedia. Sono stato sempre colpito dall’uso del bianco e nero e dallo stile satirico di Germi, dal suo umorismo: mi ha molto influenzato. Tutta la storia sta sulle spalle di Mastroianni fin dalla prima scena in cui dal treno decanta le bellezza della Sicilia, c’è satira ma c’è anche un elemento di verità in questo racconto, perché i fatti sono veri”.

Salvatore Giuliano (1962), di Francesco Rosi. “Quella della scena della madre che piange il figlio morto, non è semplicemente una madre: è la madre. Ho visto questo film nell’arco di 2-3 anni, perciò se dico che la mia vita è cambiata, voglio dire che è cambiata tante volte. Rosi mostra i fatti, ma quei fatti non sono la verità perché le radici della corruzione vanno sempre più in profondità: questa è la tragedia del Sud che conta anni e anni di sofferenza. I miei nonni si sono trasferiti dalla Sicilia nel 1910 e mi sono sempre chiesto perché non si fidassero mai delle istituzioni. Le tradizioni di migliaia di anni del Sud sono state un peso eccessivo per loro. Non si era mai visto sullo schermo questa scena di una madre che piange così un figlio, queste emozioni in campo aperto. Il criminale Salvatore Giuliano è solo un corpo e diventa figlio. Oltre l’aspetto religioso, quella scena è di un’umanità totale”.
Il Gattopardo (1963), di Luchino Visconti. La scena mostrata è quella celebre del ballo, con Claudia Cardinale e Burt Lancaster. “Senso e Il Gattopardo hanno influenzato il mio L’Età dell’Innocenza, ma in quel film mi interessava la capacità di partire da un minimo dettaglio per raccontare un macrocosmo. La lezione che ci lascia Visconti è proprio la capacità di combinare Storia e melodramma, come in Senso, o di combinare l’impegno politico con il melodramma senza vincoli come in Rocco e i Suoi Fratelli, che ha avuto grande influenza su di me e su De Niro per Toro Scatenato. Nel Gattopardo il ritmo meditativo è molto fermo ma le inquadrature sono lussureggianti, non scarne come in Antonioni. C’è il palpito del passaggio del tempo che lascerà spazio a qualcosa di nuovo che non cambierà nulla. Per il principe Salina è tempo di morire: è questo che deve accadere e questo accadrà. La musica stilisticamente segna i movimenti degli attori. E, poi, c’è Donnafugata che è la città di mia nonna”.

Le Notti di Cabiria (1957), di Federico Fellini. “Il primo film di Fellini che ho visto è stato La Strada, ma il finale di Le Notti di Cabiria è sublime, una rinascita spirituale. Giulietta Masina, in un amen, passa dalla voglia di suicidarsi al sorriso e alla gioia di stare con gli altri. Ho incontrato più volte Fellini, una volta sul set de La Città delle Donne. All’inizio degli anni Novanta, eravamo quasi arrivati a realizzare un documentario assieme per la Universal. Sarebbe stata la sua versione, alla Fellini, sul fare cinema: avevamo scelto esterni ed interni, ma purtroppo lui morì. Mi ha insegnato che bisogna sempre cercare location vicino a buoni ristoranti, anche se non sono grandi location: l’importante è che vi sia un buon ristorante”.
Paolo Taviani, che gli ha consegnato il Premio alla Carriera e che con lui ha, poi, presentato e commentato la versione restaurata del film San Michele aveva un gallo (girato, nel 1972, con il fratello Vittorio), ha ringraziato Martin Scorsese per “averci insegnato a rivedere il nostro Cinema e per aiutarci a capire il mondo e ciò che ci accade intorno, ogni giorno”.

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