La sorgente dell’amore di Radu Mihaileanu con Leila Bekhti, Hafsia Herzi, Saleh Bakri, Hiam Abbass
VIDEO
http://www.youtube.com/watch?v=2xpcOVUW8xA
La sorgente dell’amore
(La source des femmes)
un film di
RADU MIHAILEANU
SINOSSI
È una storia dei giorni nostri che si svolge in un piccolo villaggio situato da qualche parte tra l’Africa settentrionale e il Medio Oriente. Le donne vanno a prendere l’acqua alla sorgente in cima alla montagna, sotto un sole cocente. Lo fanno dalla notte dei tempi. Leila, giovane sposa, propone alle donne di fare lo sciopero dell’amore: niente più effusioni, niente più sesso fino a quando non saranno gli uomini a portare l’acqua al villaggio.
INTERVISTA A RADU MIHAILEANU
Come è nato questo progetto?
Tutto ha avuto inizio con un fatto di cronaca avvenuto in Turchia nel 2001. Fin dalla notte dei tempi, le donne di un piccolo villaggio tradizionale andavano ogni giorno a prendere l’acqua alla sorgente in cima a una montagna vicina e la riportavano al villaggio in pesanti secchi colmi fino all’orlo che spezzavano loro le spalle. A seguito di una serie di incidenti, le donne decisero di prendere in mano il loro destino e iniziarono uno sciopero dell’amore per convincere gli uomini a costruire una rete idrica nel villaggio. All’inizio gli uomini non presero sul serio le donne e ci furono episodi di violenza. Le donne non si arresero e alla fine la diatriba fu risolta dal governo. A livello più metaforico, mi sono anche ispirato a Lisistrata di Aristofane, in cui una donna, di fronte all’indifferenza degli uomini, indice lo sciopero dell’amore per mettere fine alla guerra. Mi è parso un soggetto ricco di problematiche molto attuali.
Hai mai avuto esitazioni ad affrontare un tema del genere?
Essendo uomo, ebreo e francese, per molto tempo non mi sono sentito legittimato a parlare di una cultura che conoscevo poco, a maggior ragione perché sentivo che era essenziale abbordare questo tema dall’interno. Tuttavia, sono sempre stato convinto che il film avrebbe avuto un impatto più forte se inserito in un contesto musulmano, che ci avrebbe permesso di menzionare il Corano e l’Islam, due argomenti spesso poco conosciuti e oggetto di una serie di cliché e di fantasie. Per questo motivo ho innanzitutto cercato una regista di origini arabe in gradi di affrontare il progetto da un punto di vista più accurato. Non trovandola e avendo nel frattempo fatto mio l’argomento, mi sono lasciato convincere dai miei coproduttori a dirigerlo io, ma a due precise condizioni. Innanzitutto, ho insistito per avere a disposizione un periodo per documentarmi in cui potere, tra le altre cose, andare in alcuni villaggi e incontrare le donne che ci vivono: volevo avere il tempo di conoscere intimamente questa cultura per riuscire a coglierne tutte le sfumature e le angolazioni. In secondo luogo, mi sembrava essenziale girare il film in arabo, non solo per un’esigenza di autenticità e di sonorità, ma anche per evitare che i personaggi parlino la lingua dei colonizzatori. Era essenziale che anch’io adottassi il punto di vista di quella cultura e che cercassi di parlare con quella voce.
Che tipo di ricerche hai condotto?
Con Alain-Michel Blanc, il mio co-sceneggiatore, abbiamo innanzitutto letto molte testimonianze di donne arabe e numerosi libri di sociologia e testi sull’Islam. Abbiamo anche incontrato degli specialisti del mondo arabo che hanno studiato la condizione delle donne, come Malek Chebel e Soumaya Naamane Guessous. Poi siamo andati in villaggi simili a quello del nostro film a parlare con le donne: ci hanno raccontato moltissimi aneddoti che in alcuni casi sono stati inseriti nella sceneggiatura. Abbiamo stretto autentici legami di amicizia e scoperto dei pozzi di straordinaria ricchezza. Questo viaggio ci ha aiutato molto a scivolare pian piano nella loro soggettività e a mettere un po’ da parte la nostra mentalità occidentale. Ed è forse l’aspetto più bello del mio mestiere. Nel corso delle nostre ricerche, abbiamo per esempio scoperto che le donne, comprese quelle dei villaggi molto isolati, hanno accesso, spesso in modo rudimentale, alle nuove tecnologie e sono quindi a contatto con altri stili di vita, senza per questo rinnegare le loro tradizioni. Questo intreccio di civiltà si ritrova nel film. Poiché La sorgente dell’amore ha la forma di un racconto orientale contemporaneo, non ambientato in un luogo specifico, ci siamo anche documentati su un vasta gamma di paesi musulmani per individuare i punti di contatto, in particolare riguardo alla questione femminile e ai rapporti delle donne con gli uomini, i figli, i genitori, la suocera, l’amore, il lavoro, le celebrazioni, la musica, ecc.
Come hai tratteggiato i personaggi?
Per molte delle donne protagoniste del film mi sono ispirato alle abitanti del villaggio dove ho vissuto prima di girarvi. Nella casa dove alloggiavo, c’era una coppia piuttosto simile alla coppia Leila/Sami: lui faceva la guida turistica e aveva sposato per amore una donna appartenente a un altro villaggio che spesso si faceva chiamare “la straniera”, come nel film. Era quindi un uomo di mentalità aperta che non si era piegato alla tradizione del matrimoni combinati.
Forse è proprio il suo status di “straniera” che permette a Leila di lanciare lo sciopero con maggiore facilità.
Avendo vissuto l’esilio e avendo saputo fondere due culture, la cultura del deserto, visto che viene dal sud, e la cultura della montagna, Leila è più libera delle altre. È più libera anche perché è stata aggredita: non ha più nulla da perdere e la sua indignazione la spinge a partire lancia in resta. Era quindi logico che fosse lei a guidare il movimento di rivolta delle donne, anche perché si sente protetta dall’amore del marito.
“Vecchia Lupa” è un personaggio straordinario.
Rispecchia una persona che abbiamo realmente conosciuto. Spesso nei villaggi le donne di una certa età acquisiscono una considerevole notorietà e quando restano vedove non hanno più nessuno in casa che tenga loro testa. E la “Vecchia Lupa” che abbiamo conosciuto accompagnava gli eventi salienti del villaggio con dei canti che stigmatizzavano in modo metaforico i difetti degli uomini. Incarnava il ruolo di una specie di “giudice di pace”: le era capitato di denunciare degli uomini infedeli o che picchiavano le proprie mogli. Ci siamo quindi resi conto che Leila non avrebbe potuto ottenere soddisfazione da sola e che avrebbe avuto bisogno di un sostegno.
E le altre donne che circondano Leila?
Costituiscono quello che per molto tempo è stato definito il “comitato centrale” dello sciopero: sono le donne più combattive e peraltro sono amiche. Ho scoperto in quella circostanza che sono spesso molto spiritose e che scherzano volentieri sulle questioni sessuali, sempre in modo metaforico. Spesso sono carenti di affetto e colmano questa mancanza guardando sdolcinate soap opera messicane ed egiziane di cui poi ricordano e citano alcune battute, come “Te quiero” che Esméralda ripete continuamente nel film!
Nessuno dei personaggi maschili è del tutto condannabile.
No, perché in un certo senso sono tutti delle vittime. Né Alain-Michel, né io amiamo scrivere personaggi completamente positivi o negativi. Crediamo che siano tutti il prodotto di una serie di fattori e che abbiano una soggettività in grado di giustificare le loro ragioni. Nemmeno il fratello di Sami è un bruto: ci rendiamo conto che avendo sofferto una tale mancanza d’amore non poteva che diventare così. Allo stesso modo, il figlio della “Vecchia Lupa” è diventato un fondamentalista islamico perché è vittima di condizioni economiche spaventose e della sua paura di “perdere la faccia” perché non è in grado di mandare dei soldi alla sua famiglia.
In fondo, il film è un’ode all’amore.
Non sono capace di fare film “contro”. Malgrado le tragedie e le barbarie che ci circondano, preferisco dedicarmi alla bellezza della vita, pur trattando problematiche importanti. Si tratta quindi di un film “a favore di”. A favore della bellezza della donna e della bellezza dell’amore, un amore che tuttavia deve affermarsi liberamente, a rischio di mettere a repentaglio una relazione. È in queste circostanze, quando l’amore è spinto a trincerarsi, che vediamo chi è capace di generosità. Questo film è un grido d’amore di alcune donne che dicono ai propri uomini: “Amateci e guardateci”. Perché l’amore comincia dallo sguardo.
Anche l’acqua è una metafora dell’amore.
In alcuni canti arabi tradizionali, si dice che l’uomo deve “innaffiare” la donna, come se fosse un fiore o una terra fertile. E le donne chiedono ai loro uomini di non dimenticarsi di annaffiarle. In altre parole, di non trascurarle e di continuare a guardarle. Finché gli uomini non portano l’acqua al villaggio, non possono innaffiare le donne. La siccità che colpisce il villaggio è dunque una metafora del cuore che si inaridisce.
Parli anche della volontà delle donne di appropriarsi del proprio corpo.
È un tema centrale, in particolare nelle comunità rurali. Nel nome della tradizione, molte donne sono state educate con l’idea che non sono altro che delle fattrici. Alcune arrivano a definirsi, con una certa brutalità, delle “vacche da ingravidare”. Numerose donne che ho conosciuto restano incinte da 15 a 20 volte nel corso della loro vita. Le più giovani tra loro oggi reclamano dei mezzi di contraccezione per poter controllare il proprio corpo e la natalità. Va da sé che molto spesso ignorano il significato del concetto di piacere, malgrado siano il prodotto di una civiltà molto sensuale, a partire dalla musica e dalla danza, fino ad arrivare alla cucina molto speziata. Per questo motivo ho utilizzato Le 1001 notte: per ricordare che la cultura orientale è ricca di sensualità, contrariamente ai luoghi comuni attuali che confondono Islam e islamismo.
La cultura e l’istruzione come fattori di emancipazione sono molto presenti.
In paesi come il Marocco, la Tunisia e il Libano, un numero crescente di donne impara a leggere e a scrivere. Ma rimane il tabù menzionato nel film: il diritto della donna di leggere il Corano e di dare il suo parere sulle sura che sono volutamente soggette a interpretazione. Eppure nel Corano c’è scritto che “l’essere umano deve elevarsi attraverso il sapere”, un’affermazione che comprende sia gli uomini che le donne. Quindi nel film Leila pone la questione: chi impedisce alla donna di elevarsi attraverso il sapere? Questa rivoluzione dell’emancipazione delle donne per mezzo della conoscenza resta ancora in gran parte incompiuta.
Avevi deciso fin dall’inizio di fare intervenire un imam?
Bisogna ammettere che ci sono ancora molti occidentali prevenuti secondo i quali tutti gli imam sono integralisti, mentre la maggior parte di loro non predica la violenza, ma al contrario esalta la riflessione e l’amore del prossimo. Per me era dunque essenziale creare un imam che incarnasse la saggezza. Anche se, per tradizione, deve stare dalla parte degli uomini, percepiamo il suo imbarazzo nello sposare i loro ragionamenti e alla fine permette alle donne di esprimersi e le ascolta veramente. E la cosa più straordinaria è che Leila gli offre un altro punto di vista sulle scritture e che lui lo ascolta e lo capisce. Dunque cambia grazie a una donna: ha l’umiltà e la saggezza di ammettere che lei ha ragione.
I luoghi hanno una loro identità: l’hammam, lo uadi e la stanzetta dove le donne si rifugiano per leggere e scrivere lettere d’amore…
In questo tipo di comunità, le donne si ritrovano in luoghi dove possono parlare lontano dalle orecchie degli uomini. È in questi posti che si scambiano molte confidenze e scherzano tra loro. Sono luoghi che hanno una forte identità: l’hammam, dove gli uomini non hanno il diritto di entrare finché ci sono loro, lo uadi, dove le donne fanno il bucato e altri spazi privati dove si rifugiano, per esempio, per leggere di nascosto. Abbiamo quindi creato questo luogo segreto dove leggono libri o scrivono lettere. Ed è anche lì che Leila dice a Esméralda che deve assolutamente imparare a leggere e a scrivere perché solo in questo modo potrà riuscire a liberarsi.
La lingua ha una musicalità straordinaria.
Ho sempre amato la sensualità della lingua araba. Abbiamo girato il film in darija, il dialetto marocchino, che ha una splendida musicalità. Nella tradizione orientale, le cose non vengono dette in modo diretto: non bisogna mai umiliare il prossimo affinché nessuno si senta mai sconfitto. Di conseguenza, molti scambi avvengono attraverso il canto, la poesia e la danza. Per questo ho volto esprimere alcuni concetti attraverso il canto e la danza delle donne, che dovevano essere luminosi e gioiosi malgrado i messaggi, spesso in forma metaforica, fossero caustici.
In un primo tempo, ho dovuto ascoltare la lingua con estrema attenzione, come avevo fatto con il russo per Il concerto, o l’amarico e l’ebraico per Vai e vivrai, e ho anche dovuto cogliere le intonazioni e gli accenti all’interno delle frasi. Successivamente, per tre mesi, ho organizzato delle sessioni di coaching per gli attori che non parlavano lo darija, affinché i loro fraseggi avessero la stessa melodia e lo stesso ritmo di quelli dei marocchini. Gli attori hanno lavorato talmente bene che durante la post-sicronizzazione non abbiamo dovuto correggere quasi niente.
Come sei riuscito a dirigere gli attori senza capire la lingua?
Per la prima volta in vita mia, ho girato un intero film in una lingua straniera che non conoscevo e che non conosceva neanche la maggior parte degli attori principali che lo ha interpretato! Ma mi succedeva persino di correggere le intonazioni degli attori marocchini e loro rimanevano sorpresi dalla giustezza delle mie osservazioni! In effetti, sono riuscito ad assorbire profondamente la melodia dello darija e questo mi è servito molto per mettere a punto i canti che dovevano avere una dimensione tragicomica.
Come hai orchestrato le sequenze musicali?
Ho iniziato andando a vedere e a filmare feste, matrimoni e nascite e anche visionando documentari su canti e balli tradizionali. Ci siamo molto ispirati alla realtà. In seguito, ho scritto io stesso i testi delle canzoni, ispirandomi a poesie arabe e berbere, per mettermi in testa la metrica di quel tipo di poesia e comprenderne le metafore. Perché, ancora una volta, in questa lingua non bisogna esprimersi in modo diretto, ma sempre in modo obliquo e allusivo.
E la musica?
È stato Armand Amar, che conosce a fondo questa cultura e che ha persino organizzato uno spettacolo con alcuni artisti marocchini a Parigi, ad aver composto la musica. Come in Vai e vivrai è riuscito a fondere tonalità musicali diverse, dalla sinfonia agli strumenti tradizionali, come l’ûd, che mescola forza e nostalgia tragica, il duduk, che aveva già utilizzato, e il kamancha, violino iraniano dalle sonorità rugose che mi piacciono molto. Ha anche utilizzato due meravigliose voci di donne arabe come leitmotiv che punteggia il film. Questo “meticciato” sonoro crea un’impressione di racconto, pur regalando all’insieme quella immediatezza e quella casualità che cercavo.
Si passa costantemente dalla commedia alla tragedia…
È il riflesso della mia vita e della vita in generale, che è tutto tranne che monocromatica! Mi capita di mettermi a scherzare o di essere assalito dalla voglia di ridere quando perdo un amore o una persona cara. È un modo per dire a me stesso che sono vivo e che non sono completamente distrutto. All’epoca di Train de vie, ho conosciuto molti ex deportati che mi hanno raccontato di essere riusciti a sopravvivere nei campi di concentramento grazie al senso dell’umorismo che li aveva fatti sentire sempre degli esseri umani e che li aveva confortati quando avevano dubitato della loro spiritualità, mentre era in atto il tentativo di ridurli a una condizione animale. In modo analogo, per La sorgente dell’amore ho capito che quelle donne che ho incontrato nei villaggi, che si facevano picchiare e a volte violentare, erano dotate di un umorismo graffiante. Come la donna malmenata che sostiene di essere caduta dalle scale quando in casa sua non c’è una scala e spiega «Sì, ma è quello che dicono le donne nelle soap opera messicane!». L’umorismo è sempre espressione di forza di carattere, mai di debolezza.
Come hai selezionato il cast?
Contrariamente alle mie abitudini, ho scritto il ruolo di Leila con in mente Leila Bekhti. L’avevo vista in Mauvaise foi di Roschdy Zem e l’avevo trovata incredibile, nonostante la sua fragilità e malgrado fosse un’esordiente. Le ho fatto leggere il trattamento quasi subito, prima ancora di ultimare la sceneggiatura: è stato un incontro ancora più straordinario e mi ha consigliato di leggere alcuni libri, tra cui uno molto bello sul ruolo della donna nel Corano. Mi ha confessato che non si era mai dedicata tanto a un ruolo e un mese prima di iniziare le riprese abbiamo passato in rassegna tutte le sfumature del suo personaggio. Mi ha enormemente spalleggiato su un set tutt’altro che semplice e mi ha colpito per il suo talento, il suo spessore umano, la sua volontà, la sua forza di carattere. È una grande!
E le altri attrici?
Ho scelto Hafsia Herzi molto presto. Ha una gioia di vivere e un’energia tipiche di una giovane donna ansiosa che la situazione evolva e di cui avevo bisogno per il personaggio di Esméralda. Ha anche grande talento. Erano anni che avevo voglia di lavorare con Hiam Abbass, ma avevo pensato a lei per un altro ruolo. È stata lei a propormi di interpretare un personaggio più ambiguo e ha avuto ragione. Quanto a Biyouna, è stata una sorpresa fantastica! All’inizio mi chiedevo se avrebbe retto dei lunghi monologhi, visto che è soprattutto una cantante più che un’attrice, ma fin dai primi provini mi sono reso conto che aveva tutto quello che stavo cercando: una naturale autorevolezza, il senso dell’umorismo, la voce e l’ironia! È una grande attrice, «Biyou» buca lo schermo! Un altro incontro meraviglioso è stato quello con Sabrina Ouazani. L’avevo vista soprattutto in film cupi, al punto che mi domandavo se fosse in grado di essere luminosa e spensierata. E nella realtà, la sua caratteristica è proprio la leggerezza. È l’incarnazione dell’allegria.
Parliamo dei ruoli maschili.
Avevo visto Saleh Bakri in La banda, dove interpretava un ruolo più monocromatico e lineare. Ma ha la dolcezza e la capacità di indignarsi del personaggio di Sami. È un essere umano eccezionale. Un altro incontro meraviglioso è stato quello con Mohamed Majd, che aveva interpretato Le Grand voyage di Ismaël Ferroukhi: è un attore marocchino immenso, ha un volto magnifico che non ha quasi bisogno di parlare per esprimere le emozioni, la macchina da presa lo adora. Il suo personaggio è un saggio che ama Leila e Sami di un amore infinito, che si rende conto degli squilibri nella comunità e cerca di restaurare la pace.
Quali sono state le tue priorità nelle scelte registiche?
Fin dall’inizio del progetto sapevo che questo film mi avrebbe scosso dopo l’esperienza de Il concerto che aveva una regia di ampio respiro che si avvicinava a una produzione americana. Era necessario che dessi un taglio a quell’impostazione e mi interrogassi sulla verità del soggetto. Ho capito che dovevo stare vicino ai personaggi, un po’ come in un documentario, pur dando al film una dimensione di racconto e quindi operando un leggero scarto rispetto alla realtà. Per questo ho utilizzato una piccola macchina da presa molto leggera e ho girato quasi tutto il film a mano. Per impormi una disciplina non ho preso alcuna attrezzatura da ripresa: né carrello, né dolly, né niente. Avevo solo una Steadycam che mi obbligava a non fare movimenti rettilinei. Con quel dispositivo, andavo a cercare i personaggi in modo più “accidentale”, più “imprevisto” e soprattutto non lineare, infondendo così la vita al film. Abbiamo anche lavorato molto sulle prospettive e sulle profondità di campo: volevo che ci fossero spesso degli ostacoli in campo e delle code che “intaccassero” i personaggi per accentuare l’aspetto grezzo, accidentale, non frontale. Per esempio, quando Leila piange in ginocchio, l’albero accanto a cui si trova le nasconde una parte del volto.
Quali tonalità di colore hai privilegiato?
Volevamo rendere sia l’intensità dei colori del paese sia il senso di aridità. Abbiamo quindi girato con una luce violenta, al limite della sovraesposizione, e abbiamo cercato di catturare l’ocra della terra, della montagna e delle case. Al tempo stesso, abbiamo cercato di filmare la tonalità ramata dei volti che esprime sensualità, stando attenti a creare un contrasto sullo sfondo dei paesaggi prevalentemente ocra. Abbiamo anche scelto di truccare pochissimo gli attori, per riscoprire la bellezza delle rughe, la saggezza della pelle ormai dimenticata in Occidente.
Quindi avete girato sempre in ambienti reali?
Sì, anche se ci siamo resi conto che il villaggio dove eravamo, per quanto magnifico nella sua natura, era un po’ monocromatico e non esprimeva del tutto l’universo del racconto. Con il permesso degli abitanti, abbiamo ritoccato qua e là il colore e la patina di alcuni elementi, come i cancelli e le finestre, ispirandoci alla pittura orientalista e ad altri villaggi del mondo arabo-musulmano. Abbiamo fatto la stessa cosa con i costumi, le acconciature e i gioielli. Abbiamo fuso diverse tradizioni, stando sempre attenti a mantenere una coerenza culturale e cromatica.
Il film ha delle risonanze sorprendenti con le rivolte che stanno attualmente scuotendo il mondo arabo.
Nel corso di numerosi viaggi nei paesi del Maghreb, mi sono reso conto che le donne hanno sempre più accesso all’istruzione e quindi in futuro arriveranno per forza di cose ad occupare posizioni amministrative e di responsabilità nelle imprese. Di conseguenza, grazie ai loro diplomi, svolgeranno un ruolo sempre più preponderante all’interno delle élite delle società arabe.
Peraltro, avendo letto dei libri sul dialogo tra tecnologia moderna e civiltà araba, mi pare inevitabile che a un certo punto le donne rivendichino un numero crescente di diritti e una minore rigidità nella loro condizione. E tutto questo non è in contraddizione con i precetti del Corano.
Ho quindi capito che quando le rivoluzioni arabe fossero avvenute, cosa inevitabile a breve o medio termine, avrebbero sicuramente visto la partecipazione delle donne, poiché è senza dubbio giunto il momento per le donne di guidare delle vere rivoluzioni non violente, essendo ormai l’uomo incapace di non violenza e di lucidità. È la scommessa che ho fatto lavorando su questo film.
Oggi seguo con grande interesse queste straordinarie rivoluzioni della “primavera araba”, ma è essenziale capire quali rivoluzioni coinvolgano le donne e quali non le coinvolgano e porsi la domanda: queste rivoluzioni arrivano a toccare l’intimità, la sfera domestica, e la scuola, la sfera educativa? Quando queste due rivoluzioni, a casa e sui banchi di scuola, saranno compiute si arriverà alla vera parità democratica tra uomini e donne e a una vera opportunità di democrazia. È quanto sta in ogni caso avvenendo in Tunisia e ci dà grandi speranze.