Todd Haynes quando obbligai mia madre a vestirsi come Julie Andrews… da Locarno Paolo Calcagno

Todd Haynes, dopo aver conquistato il pubblico del Festival di Cannes con “Wonderstruck” (a ottobre nelle sale con il titolo “La stanza delle meraviglie”), splendido apologo sulla sordità dove paura e desiderio si fondono in una ricostruzione intrisa di affetto e di mistero che prende spunto dal cinema muto, ha confermato al recente Festival di Locarno la sua vocazione di raffinato filmmaker indipendente rivelando, inoltre, i suoi progetti di un film sulla vita di Peggy Lee e di un doc sulla band dei Velvet Underground, e confessando a sorpresa di avere un debole per “Mary Poppins”.

“L’indipendenza è un concetto che riguarda i confini stabiliti convenzionalmente da un sistema di potere come quello degli Studios di Hollywood; mentre la strada per superarli è una sola: quella di un’incessante e vitale creatività – ha osservato il 56nne regista di Los Angeles, omaggiato a Locarno con il prestigioso Pardo d’Onore -. Spesso si definiscono “indipendenti” quelle produzioni che sono finanziate con capitali che non provengono dagli Studios. Ma altrettanto spesso quelle produzioni sono copie, a volte belle, a volte brutte, dei profili disegnati dal club degli Studios, e i loro autori (registi e sceneggiatori) non vedono l’ora di farne parte. Invece, l’autentica indipendenza sta nel fronteggiare strenuamente e con intenso vigore creativo i limiti imposti dal potente club hollywoodiano”.

Di ritorno a Locarno dopo 26 anni (era il 1991 quando Haynes gareggiò al Festival svizzero con il suo film d’esordio “Poison”, tratto da opere di Genet), l’ormai affermato regista americano con i sei successivi film ha confermato la sua cifra stilistica al servizio del racconto di una realtà da scoprire e da approfondire, sia che riguardi le discriminazioni e il moralismo feroce degli anni ’50 (“Safe”, “Lontano dal Paradiso”, “Wonderstruck”, tutti con protagonista la straordinaria Julianne Moore, sua attrice-feticcio); sia che osservi compiaciuto l’affermazione del glam-rock in “Velvet Goldmine”, ispirato all’arte di David Bowie”; sia che dipinga il ritratto di un controverso e, per certi aspetti, inafferrabile Bob Dylan (“I’m Not There”), o che indaghi nella passione al femminile (“Carol”), con Cate Blanchett icona incomparabile di entrambi i film. “Sì per “Velvet Goldmine” mi sono ispirato a David Bowie, Alice Cooper e Iggy Pop, magnifiche creature simbolo, cui bastava indossare un gilet, o una camicia, per fare tendenza, indipendentemente, o in aggiunta, al loro grande valore artistico. Del resto, era questa la grande lezione che arrivava dalla Factory di Andy Warhol, spesso lui stesso artefice di quei camuffamenti che determinavano il costrutto e l’identità delle rock-star prima ancora che diventassero tali, secondo i principi della cultura-pop dominante. Molti anni dopo, mi sono riavvicinato alla musica con “Io non sono qui”, imperniato sulla vita di Bob Dylan nel 1966, quando passò dalla chitarra acustica a quella elettrica sconcertando i suoi ammiratori più devoti. Allora, Dylan era succubo dell’alcool e della droga, si sentiva un androgino, una marionetta fragile. Mi dedicai a quella sua eccentrica personificazione e decisi di affidarne la rappresentazione a una donna, scelsi Cate Blanchette che, all’inizio, dubitava di essere all’altezza di un personaggio così alto che, peraltro, era un suo idolo. Ora, sto per riprendere il mio filo diretto con la musica-pop per raccontare la storia dei “Velvet Underground”, a 50 anni dal loro primo album che, forse, più di ogni altro ha influenzato la scena musicale: sembra  che chiunque lo avesse comprato, poi, abbia fondato una band. Spero di incontrare i superstiti di quella mitica band e di poter parlare con loro. Su Peggy Lee non dico niente, almeno per ora”.

Chissà che Haynes per il suo ritratto della mitica jazz-singer non decida di richiamare accanto a sé la sua attrice preferita, Julianne Moore, che l’ha accompagnato fin dall’inizio, con “Safe”, nella sua crescita professionale e artistica.

“Con “Safe” volevo raccontare un dramma familiare ad alta valenza repressiva – ha spiegato Todd Haynes –, mettendo una donna della media borghesia americana al centro del rapporto tra malattia e contesto sociale. Avevo visto Julianne Moore in “America oggi”, di Altman, e mi sembrava che fosse l’attrice giusta per il mio personaggio. Le mandai il copione e lei accettò di fare il provino. Quando la incontrai lesse qualche riga e subito si materializzò dalle pagine il personaggio che avevo in mente: improvvisò un accento della California del Sud e mi conquistò immediatamente. Julianne è un’attrice speciale, un’artista incredibilmente enigmatica. Abbiamo già fatto tre film assieme e siamo diventati grandi amici: ormai fa parte della mia famiglia”.

Todd Haynes con le sue accurate e raffinate ricerche è riuscito a dare forma a un universo originale in cui fa rivivere la magia del grande Cinema, sublimando la realtà senza sconfinare nel disincanto, spesso ricorrendo a citazioni colte dei grandi maestri dai quali dichiara apertamente di essere influenzato. “Il tipo di arte, letteratura e cinema che mi ha formato e che continua a farmi riflettere è sempre stato quello che mette in questione la società e che guarda alle cose da vie diverse, da nuovi angoli – ha affermato il regista americano -. Amo Cukor e Murnau. Sono figlio di una sensibilità che ama sperimentare, ma che poi ha interesse anche per una riesaminazione del cinema classico di Hollywood nel suo periodo d’oro. Diversi registi che da cui sono attratto, come Fassbinder, hanno compiuto lo stesso percorso: lui è partito da una sensibilità radicale e poi ha scoperto Douglas Sirk curiosando nelle convenzionalità del melodramma. E’ lo stesso tipo di fenomeno che si può trovare in Alfred Hitchcock: voleva tenere il pubblico in pugno, ma anche intrattenerlo dialogando sui conflitti che ciascuno di noi porta dentro di sé, il pericolo, l’illecito. Riusciva ad essere radicale e popolare nello stesso tempo. Per “Wonderstruck” ho guardato molto al cinema muto. Adesso studio Hitchcock”.

Infine, Todd Haynes ci ha stupito con una conclusione a sorpresa citando “Mary Poppins”, quale film dei film. “Avevo tre anni quando mi portarono a vedere quel film che su di me ebbe un effetto psicotico – ha raccontato Haynes – e mi spinse a una reazione creativa: ne ero ossessionato e non facevo che disegnare i personaggi di “Mary Poppins”, cantarne le canzoni. Arrivai a obbligare mia madre a vestirsi come la straordinaria Julie Andrews in quel film. Forse, fui catturato dal sogno materno, forse dal magnifico senso essenziale che contiene quel racconto. Comunque, sono convinto che dopo aver visto “Mary Poppins” non abbiamo alcun bisogno di vedere altri film”.

Paolo Calcagno          

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