Da Locarno Paolo Calcagno racconta l’omaggio ad Adrien Brody

Il Festival di Locarno ha reso omaggio con due momenti solenni ad uno dei principali talenti del cinema americano, Adrien Brody, 44 anni, che ha il record dell’attore più giovane ad aver conquistato l’Oscar: aveva soltanto 29 anni quando l’Academy lo premiò per la sua interpretazione ne “Il pianista”, di Roman Polanski. Gli ottomila spettatori della Piazza Grande hanno accolto Brody con un’entusiastica “standing ovation” quando il direttore del Festival svizzero, Carlo Chatrian, gli ha consegnato il prestigioso Leopard Club Award. E lo stesso Chatrian ha voluto essergli accanto durante i 60 minuti della master-class tenuta dal grande attore davanti alla platea di cinefili in adorazione.

Certamente, Adrien Brody è stato un interprete predestinato a diventare un beniamino del cinema d’autore. Nato a New York da madre fotografa e padre pittore, aveva solamente 12 anni quando ha scoperto la vocazione della recitazione. E, dopo un paio di fiction-tv, ne aveva appena 16 quando Francis Ford Coppola l’ha voluto nel suo “New York Stories”. A ruota, sono arrivati, poi, Steven Soderbergh (“Il Piccolo, Grande Aaron”), Oliver Stone (“Natural Born  Killers”), Terrence Malick (“La Sottile Linea Rossa”), Spike Lee (“Panico a New York”), Ken Loach (“Bread and Roses”) e, finalmente, nel 2002, Roman Polanski con la definitiva consacrazione del “Pianista”.

“Già al mio primo provino, da docicenne, scoprii con eccitazione che dovevo diventare quel personaggio fino ad acquisirlo completamente – ha osservato l’attore americano -. Quando ho cominciato a recitare, ero così eccitato di aver trovato uno sbocco per la mia vivida immaginazione, un modo per saziare la mia curiosità, motivata dall’entusiasmo che ricavo nell’esplorare il mondo che mi circonda. Recitare mi ha offerto una via di fuga e l’opportunità di vedere e sentire meglio, di vivere di più e assumermi dei rischi per interpretare la vita degli altri. Ho trovato presto un senso di gratitudine e di profonda pienezza, una maggiore empatia. Ne sono subito stato catturato”.

“Il Pianista” è stata un’opportunità unica, di quelle che capitano una volta nella vita – ha aggiunto Adrien Brody -. Come interprete, so di dovermi assumere piena responsabilità verso il film, ma lì si trattava di rappresentare la memoria dell’Olocausto, una memoria storica che appartiene ad altri. Roman è stato eccezionale nel trasferirmi il suo passato, i suoi ricordi e la sua sofferenza e nel rappresentare gli orrori di quel tempo. Avevo 26 anni quando ero sul set del “Pianista” e non avevo nessuna cognizione della vastità del tema. Soltanto dopo, quando ho visto il film, ho capito ancora più chiaramente i sacrifici e le difficoltà affrontati da milioni di persone. Ho scoperto una nuova prospettiva: la sofferenza di un individuo è comprensibile, mentre la perdita vissuta da milioni di persone è una cosa così grande che risulta troppo difficile da cogliere. Ti spezza il cuore, ma allo stesso tempo ti risveglia e ti ricorda che la storia non deve ripetersi. Abbiamo lavorato sei giorni a settimana per sei mesi e ho dovuto affrontare delle prove durissime dal punto di vista fisico. Per il mio ruolo di perseguitato fino alla fame ho dovuto seguire una dieta che quasi escludeva completamente il cibo, se non il minimo indispensabile. Ero solo in casa e con i morsi della fame allo stomaco. In quella condizione rifletti su tante cose, sugli orrori commessi nella parte civile del mondo, su te stesso, sul mondo, sui senza tetto, i rifugiati e i tanti problemi da risolvere. Ho dovuto imparare a suonare il piano ed è stata la mia fortuna: la musica mi ha aiutato. La fame e il vuoto delle privazioni portano all’isolamento, ma il dolore fisico per il calo di peso svanisce rispetto al peso delle emozioni che ti resta dentro e non cala. Ma la musica ha allievato quel disagio, Chopin, la musica classica mi hanno aiutato tantissimo a superare solitudine e tormenti. Quell’esperienza mi ha dato una tale forza che dopo, sugli altri set, mi è sembrato tutto facile”.

L’Oscar e il successo, tuttavia, offrivano il fianco a qualche rischio e a qualche tentazione che Adrien Brody ha evitato accettando il ruolo del disabile mentale in “The Village”, di M. Night Shyamalan. “Dopo l’Oscar mi aspettavo che mi offrissero ruoli più commerciali, ovviamente assai ben pagati – ha spiegato Brody -. Temevo di perdere di vista le motivazioni che avevo fin dall’inizio della mia carriera di artista e, cioè, di una continua ricerca di esperienze che forniscano opportunità di crescita, di cambiamenti positivi e di una maggiore comprensione di sé e degli altri. Perciò, accettai volentieri quel ruolo di Noah in “The Village”, un personaggio infantile ma capace di brillare di rara bellezza interiore, che ha reso felice la mia immersione nel mondo dei disabili mentali”.

Per Brody è stata emozionante anche la sfida con il cinema degli Studios, da grande budget che, puntuale, è arrivato con “King Kong”, di Peter Jackson. “Credo che “King Kong” sia costato circa 700 milioni di dollari – ha ricordato l’attore americano -. Per un anno intero, ho lavorato con la tecnologia del “green screen”: sembrava una magia, ma adesso sono arrivati ad anni luce avanti, non c’è nulla che oggi non si possa fare nel cinema. Anche “King Kong” è stata una storia di emozioni, basata su una creatura che non esiste, ma è solo accennata. Non sempre ti puoi confrontare con qualcosa di reale e sta proprio lì la sfida. C’è una scena in cui siamo circondati da insetti, da degli scarafaggi che vogliono divorarci (è una sequenza che viene dal fumetto), ma sul set non avevamo nulla intorno a noi. Eppure, quelle riprese mi eccitavano, non erano facili e ci vuole un regista molto bravo e coraggioso per realizzarle. Certo, mi sono emozionato, ma per me è ancora eccitante guardare il “King Kong” degli anni Trenta”.

Ad accrescere la lunga lista di grandi autori che l’hanno diretto sono arrivati anche Woody Allen (“Midnight in Paris”) e Wes Anderson (“Il treno per il Darjeeling”) : qual è il regista che gli ha dato di più, oltre a Polanski? “Adoro Wes: è un geniale narratore di storie – ha rivelato Brody – e le sue immagini si riconoscono subito. Siamo molto vicini, con lui ho girato due film, un corto e un doppiaggio. Wes è stato fra i primi a concedermi di essere buffo quando venivo inquadrato esclusivamente come attore drammatico, molto serio. Invece, le esperienze comiche mi piacciono tantissimo, mi divertono un mondo”.

Adrien ricorda come positiva anche la sfortunata esperienza con Dario Argento che lo chiamò per “Giallo”. Il film incontrò vari ostacoli, uscì soltanto in versione home video e qualcuno affermò che Brody, infuriato, avesse preteso un risarcimento per danni d’immagine. “Non bisogna credere a tutto ciò che si racconta – ha detto Adrien Brody -. Sono un fan di Dario Argento e mi sono divertito veramente a lavorare con lui. Dario ama giocare ed è una persona gentile e amabile, anche se gli piace mostrare in primo piano della gente sventrata. Dario e io non siamo mai stati in disaccordo”.

Eppure, un’esperienza amara, per il risultato, non manca nella carriera di Adrien. “ “Detachment”, di Tony Kaye, è sempre qualcosa di agrodolce – ha svelato Brody -. Così tante persone sono venute da me per condividere quanto il film le avesse colpite, e questo nonostante abbia avuto una piccola distribuzione dopo l’uscita. Ovviamente, un film sulle mancanze del sistema educativo pubblico in America non è una ricetta per il successo commerciale, ma era un tema così unico e forte. Ci dice anche quanto sia importante ricordarsi di come si sentono così tanti giovani e di quanto dobbiamo lavorare per fornire orientamenti e soluzioni alle sfide che devono affrontare”. Una sottolineatura politica quella di Adrien Brody, il quale non ha mancato di rivolgere un pensierino al presidente Trump. “Sono qui in quanto artista, per parlare della mia carriera- ha osservato l’attore -, e non per aizzare polemiche politiche. Tuttavia, una cosa vorrei proprio dirla e riguarda la decisione dell’amministrazione americana di interrompere i finanziamenti all’arte e alla cultura, che poi sono una minima quota di quanto, invece, si spende per le armi. E’ tragico sostenere che le Arti non siano abbastanza importanti da meritare dei finanziamenti. L’arte ci aiuta a capire il tempo che viviamo, coglie la storia ed è importantissimo sostenerla per incoraggiare la creatività fra i giovani”.

Adrien Brody ha continuato citando “Il Padrino 2” (“Per la variazione e l’incredibile crescita dei personaggi) a chi gli ha chiesto il titolo del film che più l’ha colpito; liquidando l’obiezione di superficialità nel suo legame con un marchio della moda (“L’arte è dappertutto. Io vengo dal Queens e indossavo vestiti usati. Ho ancora una taglia da campionario e possono farmi un vestito in un battibaleno”); non escludendo che prima o poi possa passare dietro la cinepresa (“Spero che sia inevitabile passare alla regia. Ho già qualche idea in testa”); e confermando di volersi dedicare sempre di più alla pittura: “Già da un qualche tempo ho deciso di concedermi una pausa di due-tre anni e di concentrarmi sui miei dipinti – ha rivelato Adrien Brody che ha già all’attivo un bel numero di Mostre-. Ho fatto l’attore perché non fui ammesso al corso di dipinto e passai a quello di teatro. Ma dipingere è meraviglioso. Per me, è un linguaggio nuovo, tutto da scoprire. Dipingere mi dà soddisfazione e mi aiuta a formare la selezione visiva. Prima di incontrare i grandi registi e le loro favolose visioni, ho avuto modo di conoscere e apprezzare le immagini una per una grazie a mia madre. Devo tutto ai miei genitori, alla loro guida e ai loro incoraggiamenti nel lasciarmi prendere liberamente le mie scelte”.

 

Paolo Calcagno 

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