Il mestiere dell’attore secondo Julianne Moore. da Giffoni Paolo Calcagno

Il mestiere dell’attore secondo Julianne Moore.

da Giffoni  

Paolo Calcagno 

 

Il mestiere dell’attore secondo Julianne Moore. Delirio ed eccitazione alle stelle hanno accompagnato il blue-carpet e l’arrivo sul palco della star americana per l’incontro con i 4.800 giovani e giovanissimi (provenienti da 52 Paesi) delle giurie della 47ma edizione di Giffoni Experience. Il largo e contagioso sorriso della diva rosso-fuoco ha accolto tutte le domande che le sono state lanciate dalla platea da giurati del Belgio, Romania, Stati Unita, Pakistan e Italia. In contraddizione con i sentimenti da predestinata, incendiata dal “fuoco sacro” dell’acting quando aveva appena 13 anni (“Fu un’insegnante del liceo a suggerirmi di prendere questa strada”), la protagonista di circa 70 film e una decina di fiction-tv , fra i quali successi indelebili come “Magnolia”, di Paul Thomas Anderson, “America oggi”, di Robert Altman, “Lontano dal Paradiso”, di Todd Haynes, “The Hours”, di Stephen Daldry, “Still Alice” (che le valse l’Oscar due anni fa), di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, nella sala Truffaut della Cittadella del Cinema di Giffoni, ha spiegato il suo “segreto” di attrice di straordinario talento, forse il più elevato dello star-system americano, dopo l’irraggiungibile Meryl Streep (“Un giorno, vidi sulla copertina di un magazine la foto di un’attrice emergente e decisi che sarebbe stato il mio modello: era Meryl Streep”), con un dettagliato elogio del metodo di recitazione e un’accurata descrizione della ricerca sul campo d’azione dei vari personaggi che ha interpretato.
“Quando scegli di essere attrice, devi studiare ed esercitarti per esserlo a tutto tondo – ha commentato la 56nne attrice -. Perciò, se mi chiedete qual è il personaggio che più ho sentito mio e al quale mi sento più legata, devo rispondervi che la cura e lo studio per ogni personaggio che ho portato sullo schermo sono stati sempre molto approfonditi, indipendentemente dalle mie emozioni personali. In quanto professionista, il mio scopo sul set e in scena è di diventare la persona del mio ruolo, in tutto e per tutto. Il mio transfert verso il personaggio cui sto lavorando è sempre totale e questo mi porta vicinissimo a tutti i miei ruoli, senza preferenze e affetti particolari”.
L’Oscar, vinto dopo vari tentativi e perfino una doppia candidatura (nel 2003: “miglior attrice protagonista” per “Lontano dal Paradiso” e “non protagonista” per “The Hours”) e il film grazie al quale l’ha finalmente portato a casa nel 2015 (aggiungendolo ai vari Golden Globe, Palma d’oro di Cannes, Coppa Volpi di Venezia e Orso d’Oro di Berlino) sono stati argomenti ricchi di precisazioni. “Qualcuno mi ha chiesto se avrei preferito vincere l’Oscar con un’altra storia e un altro personaggio della mia carriera, magari più importanti di quelli di “Still Alice” – ha sottolineato Julianne Moore -. Ragazzi, ho faticato tanto per vincere un premio così incredibile come l’Oscar che qualsiasi storia e personaggio che me l’avessero fatto conquistare sarebbero stati i benvenuti: qualsiasi! Perciò, non finirò mai di ringraziare Alice e il film di Richard Glatzer e Wash Westmoreland. Ai due registi dissi subito che dovevano darmi il tempo di prepararmi per il ruolo della professoressa di linguistica colpita dall’alzheimer. La sceneggiatura non sarebbe stata sufficiente a farmi calare completamente in quella parte è per riuscirci mi sono immersa in una lunga ricerca. Ho incontrato molte persone che erano state accanto a pazienti afflitti da questa terribile malattia: ho voluto conoscere le loro reazioni e i loro comportamenti nei vari momenti del processo della malattia. Poi, sono stata negli ospedali e ho parlato con alcuni medici specialisti che si occupano degli ammalati di alzheimer. Insomma, dovevo progressivamente diventare un’ammalata grave e non potevo accontentarmi del racconto e delle battute del film”.
Lo studio e l’applicazione saranno stati certamente utili a Julianne Moore per tratteggiare le personalità dei suoi personaggi, ma altrettanto certamente non sarebbero stati sufficienti, senza il contributo di uno strepitoso talento, a consentirle di elevarsi a elemento indispensabile della struttura narrativa dei suoi film, a trasformarsi, come a pochi attori è mai riuscito, in motore del racconto fino a diventare non soltanto strumento narrativo ma addirittura racconto essa stessa, non solo tessuto della trama, ma trama personificata. Una qualità questa che è riconoscibile in rari esempi di interpreti, da Orson Welles a Marlene Dietrich, da Greta Garbo a Katharine Hepburne, da Marlon Brando a Jean Gabin, da Anna Magnani a Meryl Streep e, forse, ad Al Pacino (fino a una quindicina d’anni fa). Incredibile Julianne Moore, capace di sublimarsi da attrice in storia da guardare, sia che pretenda le sue medicine dal farmacista in “Magnolia”, di Anderson, sia che abbracci un giardiniere negro in “Lontano dal Paradiso”, di Haynes, sia che sfrecci verso il suicidio nella familiare dei pastellati anni ’50 nei panni di mrs Dalloway (da Virginia Woolf) in “The Hours”, di Daldry, o che lasci incantato dalla sua contemplazione Rupert Everett in “Un marito ideale”, di Oliver Parker, o che stupisca Jeff Bridges con la sua stravagante determinazione ad avere un figlio ne “Il grande Lebovski”, dei fratelli Coen.
“In una scelta sono stata brava e fortunata – ha aggiunto Julianne Moore -. Ho incontrato dei registi eccellenti quando erano alle prime armi, o addirittura al debutto, ho creduto in loro e non li ho più abbandonati. Mi riferisco a registi quali Paul Thomas Anderson, Todd Haynes e mio marito, Bart Freundlich, che ho conosciuto nel 1996 sul set de “I segreti del cuore” e col quale ho avuto i miei figli, Caleb e Liv, di 19 e 15 anni. Sono nata e cresciuta con il cinema indipendente, girando film di piccoli budget e Insieme con quei registi ho vissuto esperienze incredibili, davvero. Vedete, un attore professionista non ha bisogno di essere indirizzato dal regista, sa benissimo quando deve ridere, piangere, spostarsi sul set: compito del regista è di prendere per mano gli attori con l’intera troupe del film e di guidarli verso il gradimento del pubblico. Quando t’impegni in un ruolo, a volte, ti tocca essere coraggioso nei confronti di qualcosa che normalmente ti fa paura. Per esempio, io ho il terrore di tuffarmi. Ma è solo un feeling, l’esperienza ti aiuta a superare i problemi. Siamo essere umani e possiamo imparare di tutto, a dipingere, a cavalcare, persino a tuffarci”.
Il successo ottenuto con i film indipendenti ha procurato a Julianne Moore il necessario appeal commerciale per approdare a progetti hollywoodiani multimilionari, come “Il mondo perduto- Jurassic Park”, di Steven Spielberg, “Hannibal”, di Ridley Scott, fino ai più recenti “Hungher Games: Il canto della rivolta” (Parte 1 e 2), di Francis Lawrence. L’impegno civile è una costante di quest’attrice sia sul set, in film quale “Freeheld”, di Peter Sollett, sulle unioni delle coppie di fatto, sia nella vita con la sua battaglia per avere più regole sull’uso delle armi. ”Gli Stati Uniti sono un Paese dove il diritto ad avere un’arma è garantito dal secondo emendamento – Ha rimarcato Julianne Moore -. Quindi preferisco parlare più di sicurezza che di controllo sulle armi. Bisogna convincere le persone che come sono servite regole per far sì che le auto non fossero strumenti mortali, così bisogna fare per le armi”. La Moore ha contestato anche le politiche del presidente Trump, partecipando a una campagna contro le limitazioni all’immigrazione: ”In America, a parte gli indiani nativi, siamo tutti immigrati: anch’io sono di prima generazione – ha osservato l’attrice americana -. Gli Stati Uniti sono stati fatti grandi e devono la loro identità all’immigrazione”.
Tornando al suo percorso artistico, Julianne Moore ha voluto sottolineare gli incontri che hanno segnato le sue scelte, come quello con Robert Altman (‘Il suo lavoro mi ha ispirato profondamente come attrice”) o con Todd Haynes, che l’ha diretta in “Safe”, “Lontano dal Paradiso” e ora nel fantasy “Wonderstruck”, per il quale potrebbe ricevere una nuova nomination agli Oscar: “Todd ha una visione così originale, è un grande artista e ha un’anima bellissima”.
Fra i film in uscita la diva di Hollywood ha “Kingsman: The Golden Circle”, di Matthew Vaughn, sequel delle avventure delle elegantissime spie british dove lei fa la “cattiva” (”Julianne nel film è come una Martha Stewart sotto acidi”, ha detto in un’intervista il regista) e “Suburbicon”, commedia nera di George Clooney, scritta dai fratelli Coen, che potrebbe debuttare alla prossima Mostra di Venezia: ”George è un uomo molto generoso e divertente, riesce a creare un’atmosfera magnifica sul set”, ha commentato la Moore. Che consiglio darebbe al neo papà? ”Di prepararsi a passare tantissimo tempo a giocare”, ha risposto l’attrice che è anche autrice di libri per bambini.
Inoltre, Julianne Moore ha in preparazione per Amazon una serie-tv da160 milioni di dollari, per ora senza titolo, diretta da David O. Russell e con partner Robert De Niro: ”Sarà la storia di una grande famiglia, con moltissimi personaggi: gireremo a New York, perché David, Bob e io viviamo là”; e per il grande schermo ha in programma la versione americana di “Gloria”, premiato a Berlino nel 2013 per l’interpretazione di Paulina Garcia, che, come l’originale cileno, sarà diretto da Sebastian Lelio.
Ha mai avuto proposte di film italiani? ”No e mi chiedo perché, mi piacerebbe tanto”. Fra i cineasti italiani la sua preferenza va a Luca Guadagnino: “Amerei moltissimo lavorare con Luca: è fenomenale”.

Paolo Calcagno

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