“Il Cinema è morto. O quasi. Certamente, è in agonia”, parola di Peter Greenaway.

 

“Il Cinema è cambiato. Oggi, lo guardiamo in Tv, sugli smartphone, sui tablet, da soli, non più in compagnia nelle sale buie, come i nostri grandi padri. Se guardiamo Casablanca ci risulta noioso, perché è sempre uguale, statico, immutabile. Il formato dei film, oggi, è diverso: c’è l’interattività, guardiamo i film in frammenti, lo spostiamo avanti o indietro.

Intervista a Peter Greenaway di Paolo Calcagno  al Biografilm Festival di Bologna

 

“Il Cinema è morto. O quasi. Certamente, è in agonia”, parola di Peter Greenaway. L’eccentrico e visionario autore di film raccontati con immagini oltre i confini del Barocco (da I misteri del giardino di Compton House a Il ventre dell’architetto, da Giochi nell’acqua a Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante) è stato l’ospite di rilievo del tredicesimo Biografilm Festival di Bologna dove ha tenuto una master-class per gli studenti della Scuola di Cinema e ha ricevuto il Celebration of lives award. Tra i due momenti da protagonista del Biografia Film Festival, il 75enne regista britannico ha accettato di incontrarci e di esternare la sua analisi sulla crisi irreversibile del Cinema. Giulio Cesare, Churchill, Lutero, Rembrandt, Eiseinstein, Fellini, Rossellini (nonché Pasolini e Visconti duramente criticati), i testimoni eccellenti invocati da Peter Greenaway a sostegno delle sue apocalittiche sentenze sui destini dell’arte del grande schermo. L’inaffidabilita’ della parola, le menzogne della Storia, il primato dell’immagine, l’espansione vincente delle nuove tecnologie, i temi sviluppati dal regista inglese.
– “Parole, parole ovunque: parole nei libri, sul palcoscenico…”, l’accusa di un personaggio del suo film Goltzius nel quale si afferma la superiorità dell’immagine pittorica come segno significativo dell’umana civilta’. E’ sempre dell’ avviso che la parola sia effimera, nonostante l’esplosione della società dell’immagine ci condizioni nelle nostre scelte da qualsiasi tipo di schermo, grande, piccolo, mini, multi?


“Abbiamo avuto 8mila anni di pittura, 32mila se guardiamo ai graffiti nelle grotte. La pittura è semplice, la sua tecnica è immediata. Si dice: “All’inizio, era il verbo”. Io, invece, penso che all’inizio c’era l’immagine e che probabilmente resterà l’ultimo mezzo di espressione quando la civiltà sarà scomparsa, come certamente accadrà. E’ l’immagine della pittura quella cui mi riferisco quando parlo di linguaggio universale, inteso come il più antico e duraturo. Penso che nessun giovane cineasta agli inizi dovrebbe avere il permesso di usare una macchina da presa o una videocamera senza avere prima frequentato tre anni di una scuola d’arte. Con i suoi 120 anni di storia il Cinema, in confronto alla pittura, è “effimero” e con l’avvento delle nuove tecnologie possiamo tranquillamente definirlo “obsoleto” e, persino, considerarlo “quasi morto”. Lo schermo fisso non basta più a contenere le immagini che per essere adeguatamente rappresentate dovrebbero scorrere, almeno, su tre schermi in continuo movimento. I film, oggi, non sono niente di più che illustrazioni di testi, classici o originali, non c’è inventiva in quelle immagini. Le saghe cinematografiche di Harry Potter e Il signore degli anelli nascono dalle parole, non dalle immagini (come dovrebbe essere), si specchiano nei testi che li hanno generati. Il tentativo di fare del Cinema testuale è destinato al fallimento: quando fa nascere le immagini dai testi, il Cinema insulta l’intelligenza del suo pubblico. E anche il 3D di Cameron, alla Avatar per capirci, è completamente superato. Avete presente gli schermi giganti di Time Square con le loro esplosioni di immagini? Ecco, quello è il vero 3D. Del resto, io nasco pittore. Tutta la mia formazione, fin da ragazzino, e stata rivolta verso l’arte della pittura. Poi, sono diventato regista soltanto per puro caso”.

 

Il “caso” per Greenaway ha avuto il nome e l’arte di Ingmar Bergman. Era uno studente di giurisprudenza (i suoi genitori volevano che diventasse un avvocato) quando, un giorno di pioggia, Greenaway entrò nella sala dove si proiettava Il settimo sigillo. L’ossessione della partita a scacchi con la morte di quel film lo colpi’ così tanto che per i successivi 5 giorni ritornò a vederlo, due volte al giorno. Fu così che decise di darsi alla regia. Si iscrisse a un corso sul cinema europeo e girò il suo primo film in 8 mm, a soli vent’anni. Quel film aveva come soggetto la morte, o meglio la sepoltura, e tanti altri elementi piuttosto macabri. The Death of Sentiment (1962) riprende, infatti, vari simboli e ossessioni che poi lo stesso Greenaway avrebbe approfondito in tutta la sua successiva opera: decomposizione dei corpi, morte, architettura, sesso, religione, pittura, luci, ombre, parole, catalogazione di simboli e numeri, il tutto condito da un’ironia e da un senso dell’umorismo piuttosto nero che rendono lo stile analitico e citazionale dei suoi film, divertente e fruibile.

 

“Si tratta di ingraziarsi inizialmente la simpatia del pubblico per poi portarlo verso un tema molto serio. Un film deve essere divertente e spero che, per quanto mi riguarda, il divertimento funzioni a più livelli: intellettuale, sensuale e soprattutto visivo”, ama sottolineare Greenaway.

- Come pittore ha varie mostre all’attivo, ma da qualche tempo si sta dedicando al tema della pittura anche con la cinepresa: dall’installazione tecnologica su L’ultima Cena di Leonardo al film Rembrandt’s J’accuse (dedicato al capolavoro “Ronda di Notte” del grande artista olandese), fino alla preparazione di un film su Bosch.

 


“Tutta la mia idea dell’arte è cambiata 5 anni fa, quando sono andato a vivere ad Amsterdam. Abito nei pressi del Rijksmuseum e sono membro privilegiato di quel museo, così che posso entrarvi a guardare le opere tutte le volte che voglio, a qualsiasi ora. E’ stabilito che il dipinto più famoso al mondo è “Monna Lisa” di Leonardo, al secondo posto c’è “L’ultima cena”, ancora di Leonardo, al terzo “La Cappella Sistina” di Michelangelo, ma al quarto c’è “Ronda di notte” di Rembrandt che è il primo quadro celebre ad avere come soggetto noi, la società borghese. La pittura delle Fiandre e dell’Olanda è la stata la prima a deviare la sua attenzione dal mondo religioso classico verso il mondo borghese. E questo coincise con la Riforma Protestante di Martin Lutero della quale ricorre il cinquecentenario (1517) e la conseguente crisi della Chiesa cattolica. Rembrandt, infatti, è del 1606 e undici anni fa sono stati festeggiati i mille anni della sua nascita. Per l’occasione mi è stato chiesto di celebrare “Ronda di notte”, il dipinto più intimamente legato alla vita dell’Olanda: pensate che gli americani avevano invano proposto di annullare il grosso prestito concesso agli olandesi nel dopoguerra in cambio del quadro di Rembrandt. Per 16 settimane sono stato obbligato a lavorare di notte, a causa del flusso di visitatori al museo. Conoscendo il mio stile, il museo mi aveva chiesto di enfatizzare i chiaro-scuri, le luci e ombre del quadro sulle situazioni drammatiche della nostra vita. E io ho fotografato millimetro per millimetro ogni singolo frammento del dipinto per vedere quanti colori fossero stati utilizzati in correlazione con i colori primari del rosso, blu, giallo. Inoltre, “Ronda di notte” nasconde un omicidio come atto di accusa contro la società che già allora si voleva democratica: quell’opera è un segno di denuncia sociale e politica. Quell’esperienza mi ha portato alla riflessione che la Storia non esiste, ma esistono, invece, gli storici che sono dei bugiardi: da Giulio Cesare a Churchill sono state scritte montagne di falsità. La Storia, pertanto, è rintracciabile soltanto nelle immagini come, appunto, quel quadro di Rembrandt. E’ l’arte dell’immagine che si esalta come espressione primaria della nostra Storia e della nostra civiltà”.
- Poi, però, ha rivolto la sua attenzione sul regista russo Sergej Eisenstein, che teorizzò il primato del montaggio come motore di tutte le arti.


“Volevo ritornare pienamente al mio mestiere di regista e, due anni fa, ho scelto di raccontare con Eisenstein in Messico il più grande regista che sia mai esistito, assieme a Federico Fellini, cui avevo reso omaggio con Otto donne e mezzo al suo strepitoso Otto e mezzo. Eisenstein, purtroppo, era al servizio della propaganda sovietica e, come Ciaikovskij, era omosessuale. Queste rivelazioni sull’autore della Corazzata Potiomkin non sono piaciute ai russi che mi hanno bollato come “persona non grata”. Perciò, almeno per qualche tempo, è consigliabile che non mi faccia vedere da quelle parti”.
- Ha citato Eisenstein e Fellini, due esempi indelebili della settima arte. Crede che siano irripetibili? E’ questo che l’ha condotto alla convinzione che il Cinema sia morto o, comunque, in agonia?
“Il Cinema è cambiato. Oggi, lo guardiamo in Tv, sugli smartphone, sui tablet, da soli, non più in compagnia nelle sale buie, come i nostri grandi padri. Se guardiamo Casablanca ci risulta noioso, perché è sempre uguale, statico, immutabile. Il formato dei film, oggi, è diverso: c’è l’interattività, guardiamo i film in frammenti, lo spostiamo avanti o indietro. Da film-maker ci siamo trasformati in print-maker, stampatori: chi sa dire qual è la copia originale di Via col vento? E’ impossibile rintracciarla. Anche a livello sociale il Cinema avrà un futuro diverso: siamo tutti borghesi, dietro di noi ci sono solamente gli immigrati extracomunitari. C’era stata questa strana volontà del Cinema italiano di guardare al socialismo, da Rossellini a Visconti e Pasolini. Ma Pasolini era un intellettuale, più poeta che regista, il suo socialismo è di facciata, falso, il suo sguardo verso il proletariato è distaccato: si può notarlo anche in Accattone. Uccellaci e uccellini, poi, è montato in maniera trasandata. Anche Visconti guarda alla classe operaia con ipocrisia: il suo “Rocco” è fortemente romantico. Il più genuino e onesto resta Rossellini. In definitiva, noi siamo i custodi del Cinema e dobbiamo chiedercelo: da La dolce vita, di Fellini, a L’ultimo imperatore, di Bertolucci, che ne abbiamo fatto del fenomeno del Cinema italiano, come abbiamo potuto distruggerlo?”.
Paolo Calcagno

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